Forme sotto il velo (e non solo): vite di donne

Avevo cominciato a scrivere un pippone sul velo islamico, sul burkini e sulla polemica che ciclicamente coinvolge le donne musulmane nelle terre occidentali. Fagotti, fantasmi, mucchi di stracci: nei pruriti genitali di questo o quell’altro campo queste donne perdono consistenza, diventano simboli e non persone, esseri senza storia e senza destino.

Avevo cominciato a scrivere un pippone sull’hijab e sui contesti storico-politici in cui si è evoluto, imposto, generalizzato. Ma nel mentre che scrivevo, il pippone è diventato man mano meno preciso, meno definito: è impossibile descrivere in poche righe la complessità della questione, tutte le sfaccettature, tutta la diversità che la pratica del velo nasconde. E nel mentre che lo scrivevo, quel pippone, mi sono chiesta anche cosa mi desse l’autorità per scrivere qualcosa sull’hijab, quando le voci delle dirette
interessate sono spesso inudibili, inascoltate, dissimulate: quei fagotti che non parlano, non vivono, non esistono veramente, agli occhi di tanti e tante, femminist* e non, che pontificano sulla libertà di scelta. Come se fossimo davvero liberi, sempre, di scegliere in barba ai contesti e alle regole della società.

E allora, al di là di velo sì o velo no, burkini sì o burkini no —tanti argomenti che richiederebbero uno spazio di discussione ampio e complesso ho deciso di ricominciare da capo e tentare di far prendere forma, dare un corpo, alle donne che ho conosciuto in diversi anni di peregrinazioni tra Francia e Marocco.

Non esseri informi, né eterne succubi, ma donne: donne musulmane, velate e non velate, che mi hanno colpita e spinta a modificare i filtri con cui ero abituata a leggere il
mondo. Voglio dedicare queste mie parole a tutte queste donne, belle e combattive, rassegnate, rivoltate, remissive, feroci, che tentano ogni giorno di farsi un posticino nel mondo. Persone al di là dell’indumento.

Per rispetto della privacy di queste persone, i nomi e tutti i dati sensibili saranno modificati e/o omessi:

 

Sonia, 40 anni, francese di origine marocchina (2011) , Francia

Sonia è una collega dell’epoca in cui lavoravo come animatrice in Francia, qualche anno fa. Ha un carattere spigliato, forte, una risata luminosa, un’anima allegra. Sonia ha vissuto un matrimonio combinato, anzi quasi due. Suo padre ci aveva già provato quando era ancora una ragazzina e lei lo aveva denunciato all’assistente sociale del liceo. Il secondo tentativo è andato invece a buon fine e Sonia si ritrova, a 19 anni, sposata con uno che definisce integralista, che la chiude in una casa sperduta in mezzo ai campi del settentrione francese. Il marito le fa vivere un inferno, la isola, la batte e lei ha paura di rimanere incinta, di rimanere incatenata a quell’uomo per la vita. Mi dirà in seguito che Dio, nella sua lungimiranza, non ha voluto che lei avesse un figlio da quell’uomo. Sonia scappa con l’aiuto della sorella del marito: riesce a capire dove si trova grazie all’aiuto di un postino, riesce a trovare la stazione e sale su un treno. Sonia si è riconstruita in seguito: ha una vita, un lavoro, un marito che ama, dei figli. Non ha mai veramente perdonato suo padre per quello che le ha fatto. Sonia non porta il velo e nessuno, vedendola, immaginerebbe quello che ha passato. Sonia non porta il velo e non torna da tempo nel Paese di origine perché al mare vuole mettersi in bikini e abbronzarsi e in Marocco non è che non può, dice, ma da diversi anni le cose sono cambiate e il costume da bagno per le donne musulmane, è visto di cattivo occhio. Sonia dice: “Io non sono marocchina. Sono francese, nata in Francia e il mio modo di credere o praticare la religione non li riguarda”. Sonia non porta il velo, Sonia è musulmana, Sonia è credente, Sonia non ha niente da provare a nessuno.

Choumicha, 29 anni, marocchina (2012), Marocco

Quando incontro Choumicha per la prima volta, nel 2012, non porta il velo e non è sposata, anche se sta andando verso la trentina, fattore che può rappresentare un handicap agli occhi della società.
È forse una delle rare ragazze a non indossare l’hijab in quella regione del Marocco dove mi trovo: una città del Nord, conosciuta per la “durezza” degli abitanti (leggasi bigotteria). Choumicha lavora e passa una buona parte dello stipendio alla famiglia, soprattutto alla madre: il padre è in pensione e il fratello guadagna poco. Choumicha non vuole sposarsi, o almeno non seriamente. L’unico motivo per sposarsi sarebbe la possibilità di lasciare definitivamente il nido famigliare e farsi una vita propria ma, alla fine, l’indipendenza economica e sociale che ha guadagnato lavorando non la convincono a cambiare statuto. Choumicha è libera in molte cose, ma sottomessa a una pressione sociale che schiva con grande abilità, tessendo menzogne e scavandosi piccoli margini di movimento. Quando Choumicha mette il velo per la prima volta sono presente per caso, l’aiuto a scegliere i foulard adatti al suo incarnato, perché Choumicha ha anche la civetteria dalla sua, come tante altre. Choumicha vuole mettere il velo a causa di un ragazzo morto: era un giovane del quartiere, deceduto tempestivamente per un incidente d’auto, un ragazzo che era cresciuto con lei.
Choumicha vuole mettere il velo perché pensa alla morte e a Dio; vuole avvicinarsi alla sua religione e vede nel foulard un mezzo, un impegno, una promessa verso il suo Dio. In seguito, Choumicha metterà il velo, lo toglierà, avrà delle tresche con questo o quel ragazzo, uscirà, si divertirà, cercherà ancora e ancora i suoi margini di libertà.

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Loubna, circa 60 anni (2012), mamma di Choumicha, Marocco

Loubna è una donna poco ordinaria anche se il primo impatto può ingannare. Casalinga, madre di famiglia sempre intenta a pulire e cucinare, Loubna è una persona serena, ridente, calorosa. Il suo foulard è probabilmente quello della vecchiaia, molte donne lo indossano col passare degli anni. Ma Loubna è anche, a modo suo, sovversiva: onesta, sincera e aperta non si fa remore a dire alla figlia che quel foulard non le piace. E non si fa remore a dirmi di mettere delle minigonne, che c’è caldo e
comunque mi stanno bene. Loubna è forse la mia prima mamma marocchina, la porto nel cuore per il suo sorriso, la sua tenerezza e la sua serenità. La sua vita scorre tranquilla e si respira la sua calma entrando in casa.

Fatima e Shayma, (periodo dal 2008 al 2014), Francia

Fatima e Shayma sono due militanti e intellettuali, impegnatissime nel sociale. Sono due persone estremamente diverse, con cui non mi sono sempre trovata in accordo ma che hanno segnato momenti di apertura importanti durante la mia formazione. Le incontro entrambe all’università e mi colpiscono per l’eloquenza e la forza delle loro idee. Fatima è francese d’origine marocchina, si occupa di migranti e senzatetto, partecipa a movimenti politici e collettivi. Non porta il velo ed è molto critica rispetto alla sua società di provenienza. Ma, ogni tanto, Fatima raccoglie i capelli in un fazzoletto, come le tante donne della campagna marocchina che proteggono i capelli dal vento e dal sole e dalla sabbia. Mentre annoda i capelli con quella gestualità tutta speciale che fa di quel gesto una naturalezza, mentre parla di politica e razzismo, le leggo negli occhi la fierezza delle origini, la voglia di dire “sì, sono francese e pure marocchina, sono musulmana per discendenza, Francia, e allora?”. Shayma è una francese convertita che sente una profonda vicinanza per l’Algeria e la storia post-coloniale del Paese. Con il suo velo Shayma vuole affermare la sua appartenenza religiosa ma il percorso spirituale è ricco di incidenti: lo metterà, lo toglierà, lo metterà di nuovo. Shayma è aggredita verbalmente diverse volte nella metropolitana; per quel pezzo di stoffa sentirà il peso di tutto un insieme di pregiudizi che la identificano come islamista, radicale e sottomessa. Ma Shayma è intellettuale e militante, la sua conversione e il suo velo non rappresentano solo un desiderio di appartenenza: sono invece una ricerca spiriturale e una postura di rivendicazione. È grazie a Fatima e Shayma che vengo a conoscenza del massacro degli algerini a Parigi del 17 ottobre 1961, strage perpretata in pieno centro della Capitale, pagina nera della Francia postcoloniale che non ha mai davvero cessato di esistere. Un massacro il cui riconoscimento si deve al Presidente Hollande, nel 2012, ciquant’anni dopo.

Neda, 28 anni (2012-2013), marocchina, Marocco

Neda è velata, credente e praticante. Questa è la prima cosa che si vede quando la si incontra. La sua pratica religiosa è molto importante e codificata; i suoi indumenti sono tradizionali e modesti, non vuole che le sue foto finiscano su Facebook e mi chiede espressamente di non pubblicarle.
Neda ha un lavoro, non è sposata, vive con la famiglia. Una madre ridanciana e imponente, fratelli e sorelle, e cugini e nipoti sempre in casa, una casa chiassosa. Neda vuole tutto e il contrario di tutto: non ha mai avuto nessuna esperienza di tipo amoroso o sessuale, si preserva per il marito ma sembra che non lo stia cercando attivamente. Neda vuole sposarsi con un uomo musulmano, poco importa l’origine, e andarsene a vivere negli Stati Uniti per ricominciare a studiare. Ma Neda vuole
anche essere mamma di famiglia e casalinga: le sue aspirazioni e i suoi sogni sembrano fondersi in immaginari perfettamente opposti. Alla fine, il dubbio è che Neda voglia sposarsi ma anche no: perché non sembra certo pronta a perdere quell'indipendenza che il lavoro le accorda e credo che, in fondo, stia ancora cercando di far coincidere i suoi ideali di coppia con le sue aspirazioni.

Hajar, 21 anni (2013 a oggi), marocchina, Marocco

Hajar ha dei bellissimi capelli sempre sciolti e curati. È una ragazza molto avvenente e lo sa: ha una passione per l’;intimo, i profumi, le cure estetiche. Hajar studia e lavora, lavora tanto e le piace. È una ragazza che forse non vorrebbe vivere nella città in cui vive, nella mentalità in cui vive. Come altre, si serve di sotterfugi, cerca di vivere al meglio la propria gioventù, nonostante gli intralci alla sua libertà. Con Hajar posso parlare liberamente di molte cose: di sesso, di uomini, di femminismo.
È sensibile ai discorsi sull’emancipazione e leggo nei suoi occhi una voglia incredibile di essere abbastanza forte da riuscirci. Ma Hajar è anche una persona che cerca disperatamente compromessi tra la vita che vuole e quella che gli altri vorrebbero per lei. Le sue gabbie mentali la portano talvolta a prendere grossi rischi nelle relazioni con gli uomini, perché è un uccellino che avrebbe voglia di volare ma ha paura di provare. Spero davvero che un giorno ci riesca.

 
Hayat e Khadija, 41 anni (2014 a oggi), marocchine, Marocco

Hayat e Khadija sono due donne forti e sorprendenti: il loro lavoro le definisce. Sono due persone che hanno studiato e sudato per ottenere posti di responsabilità e che guadagnano più dei loro mariti. Hayat e Khadija sono in rivolta nel loro matrimonio, gli uomini, la società. Vogliono, anzi esigono, rispetto e partecipazione, equità e giustizia. Hayat e Khadija sognano l’amore e la realizzazione personale; non si accontentano, si rivoltano, si appellano alla religione, scrivono poesie e mettono in dubbio, con la loro esistenza stessa, le strutture sociali che le circondano. Hayat e Khadija mi parlano, si arrabbiano, discutono e rompono silenzi vecchi di secoli, di rado verbalizzati, nelle quattro mura di un ufficio. Hayat e Khadija hanno un discorso femminista, anche se non lo considerano tale. Poi, finito il caffé del pomeriggio, escono, mettono il loro foulard sulla testa e si dirigono dall’estetista.Qualunque cosa succederà nel loro futuro, tra balzi in avanti e passi indietro, tra conquiste, contraddizioni e compromessi, quel pezzo di stoffa non è stato capace di sottometterle e non sarà capace di farle tacere.

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Ci sarebbero tante altre piccole storie significative, ma non esaustive per rappresentare un universotanto vario e complesso come quello arabo-musulmano: quella di Waafa, francese di origine
algerina, divorziata e senza velo, che riempe la stanza di buon umore e, sovversiva, ironizza sui tic delle donne e degli uomini musulmani. Quella di Fatima, che ha sposato un francese con una cerimonia semplice in barba alle tradizioni, che lavora, porta lo stipendio a casa e si lamenta delle molestie di strada. Fatima, che ride un sacco da sotto il suo foulard prendendo in giro suo marito, che non è credente. O infine quella di Samira, che fa studi di genere e parla di patriarcato, di dominazione maschile e si interroga, a volte, sul significato che attribuisce al suo foulard.
Il comune denominatore di tutte queste storie? La voglia di raccontare queste donne aldilà dei loro vestiti, il desiderio di andare oltre le nostre barriere percettive e cominciare a vederle per davvero.

 

Valentina, antropologa