Non è la prestazione sessuale concessa, il problema, ma la prestazione sessuale pretesa

Spoiler: in questo articolo le donne saranno definite sempre come lavoratrici, (per volontà prima che per necessità), perché la connotazione di donna, in quanto donna, è una connotazione che deve smettere di essere più forte delle altre, compresa quella di lavoratrice.

Al netto, infatti, delle riflessioni sullo scambio di sesso e sulla liberazione onesta e consapevole della vita sessuale e del corpo delle donne, principi nei quali credo fortemente, cosa differenzia la posizione femminile da quella maschile, nel ricatto sessuale? E cosa differenzia la posizione giuridica femminile contrattualmente, da quella maschile, sul posto di lavoro?

Precisiamo due questioni semplici e imprescindibili:

– se subisci una minaccia o un ricatto e per tale minaccia o ricatto fai sesso con una persona è una violenza, non c’è consenso.
– se poi ne ottieni benefici nessuno è autorizzato a dire o fare congetture.
– se questo avviene sul posto di lavoro, la possibilità che ci sia un ricatto sessuale, è ancora più alta.

 Non è chiaro il perché?

L’ambito lavorativo non è un ambito privatistico nel quale stipulare contratti in una condizione di parità fra le parti. La configurabilità dei lavoratori come soggetti deboli (n.b. deboli giuridicamente e contrattualmente) viene in rilievo con riferimento all’affermazione costituzionale del diritto al lavoro, nella disciplina dei rapporti sussistenti tra il lavoratore ed il datore di lavoro.

Non c’è equilibrio fra le parti, perché non c’è medesima forza contrattuale fra chi offre e chi domanda lavoro. Chi domanda forza lavoro, detiene obiettivamente e incontestabilmente più forza, contrattuale ed economica, di chi offre il proprio lavoro.

Se questo è tradizionalmente confermato da una serie di pronunce della corte costituzionale e assunto in maniera inderogabile in qualunque disciplina di diritto del lavoro, questa nozione sostanziale ed empirica, evidentemente sfugge ai sommi interpreti da click-baiting.

A questo si sommino i recenti dati sul gender gap italiano e la discriminazione femminile sul luogo di lavoro, per rispondere causticamente che no, non avrebbero potuto affermare così facilmente il loro ‘no’, non avrebbero potuto rifiutarsi così sprezzantemente, non sarebbero potute così causticamente tornare alla loro vita di prima per un ordine di motivi abbastanza evidenti: il sistema stesso è infarcito ovunque di sessismo, il ricatto sessuale vige come imperativo categorico in una percentuale elevatissima di prestazioni lavorative, non solo nel mondo dello spettacolo, e nelle mentalità di chi lo pretende; la soggettività debole rilevata dalla corte costituzionale non è estirpabile con un elementare “mi rifiuto” perché intrinseca nel dinamismo di potere e nel tessuto giuridico che lo interpreta. Chi non ha potere è inesorabilmente fuori da ogni nervo della contrattazione e spesso ‘fuori’ significa ‘emarginazione’.

Ma soprattutto perché ‘fuori’, ad accoglierti, ritroverai una società maschilista e patriarcale impreparata a gestire il sessismo e la discriminazione nei posti di lavoro. E lo “scandalo” delle molestie sessuali negli ambienti dello spettacolo, che di scandaloso non ha niente se non le risposte sui social, è la punta dell’iceberg di una società maschilista e sessista che si perpetra da secoli e non un’emergenza di cui non immaginavamo l’esistenza.

Si sarebbe potuta rifiutare.
Una delle critiche più ferventi, vessillo di potenti analisti e giuristi prêt-à-porter, che spopola sul web, è che le lavoratrici del mondo dello spettacolo si sarebbero potute rifiutare:
Il rifiuto, l’alternativa, il diniego, il “no” non sono competenza di chi batte sulla tastiera di un computer. Qualunque ambito lavorativo deve essere scevro da ricatti, estorsioni, e riferimenti sessuali se non strettamente e previamente previsti dalla mansione di lavoro. E’ la sessualizzazione del soggetto femminile sul posto di lavoro che deve indignare, non le vittime più o meno consapevoli di questo sistema.

Perché io non avrei accettato.
Molti sono i commenti, di uomini, che non colgono, o non accettano, la differenza fra uomo e donna sul posto di lavoro. E questo è spesso deprimente perché non è frutto di un assunto e consolidato antisessismo, ma del più occulto paternalismo patriarcale. Loro non avrebbero accettato, perché loro non si trovano doppiamente deboli giuridicamente e discriminati socialmente. L’uomo, vittima di un numero estremamente inferiore di discriminazioni nell’arco della sua vita, sul posto di lavoro, come dipendente, ne vanta un indice irrisorio. Se questo può dirsi un successo delle politiche giuslavoriste, l’insuccesso dell’altro sesso, diventa un peso e un rischio lavorativo di cui si fanno carico solo le lavoratrici. Un peso e un rischio, che spazia dall’insuccesso e l’emarginazione lavorativa, alla discriminazione e costante disparità nelle retribuzioni, nelle opportunità e nelle mansioni, alla sessualizzazione e l’oggetivizzazione sul posto di lavoro, oltre che fuori. Posto di lavoro in cui spesso si riversano le mire aspirative, i sogni e i talenti di soggetti già fortemente eterodiretti, giudicati e subordinati alle volontà di altri nell’arco della loro esistenza. E’ davvero così facile, allora, immedesimarsi e dire, dall’alto del tuo privilegio: “io non avrei accettato”? E’ così istantanea la connessione empatica, prima che economica e giuridica, fra te, e una persona vittima di discriminazione, violenza, disparità e debolezza che cede, consapevole o meno ad un ricatto o una minaccia sessuale?

Ma lei ne ha ricavato qualcosa.
Probabile, il ricatto spesso prevede un qualcosa in cambio, eppure rimane sempre un ricatto. In una sperequazione di parti, fra chi offre un posto nel mondo dello spettacolo e chi lo sogna, e lavora per ottenerlo, la prestazione sessuale è quasi sempre inserita in un rapporto di minaccia di esclusione ed emarginazione. Il consenso accordato spesso è oggetto di una sottomissione allo stra-potere di una parte, di una completa dipendenza e subordinazione. Anche qualora il ricatto sia stato artefice di un vantaggio di sorta, non chi è “stato al gioco” (espressione cara ai vari commentatori via web) il vero beneficiario, ma chi ne ha dominato il rapporto di potere, solidificando e perpetuando la sua posizione.

Una questione di valori?
No, non c’è una questione di serietà e valori. C’è una questione di minoranze e discriminazione. Spesso i commentatori (maschili) pontificano la demenziale facilità con cui queste lavoratrici  avrebbero potuto rigenerare la loro carriera lavorativa trasmutandola in qualcos’altro a fronte della bieca richiesta sessuale, così da celebrare la purezza dei loro valori.
Ma la purezza dei valori di chi propone sesso per una carriera?
Non andrebbe forse impedito a questi datori di lavoro, guarda caso spesso uomini potenti, di innescare sistemi di merito al ribasso, se non solo a sfondo sessuale, piuttosto che colpevolizzare ancora una volta le donne che non rientrano in un altro, ennesimo schema: la serietà?
La serietà richiesta in un posto di lavoro è una professionalità legata alla diligenza e non un’aderenza valoriale alla privata fides del proprio datore di lavoro. Come mai viene richiesto questo, ed è richiesto alla lavoratrice?

Una questione di merito?
In un clic, il merito di queste lavoratrici è caduto in un baratro di ingiurie e diffamazioni, perché accusate di esser false, opportuniste e di aver generato una spirale deflattiva di dissenso intorno ad emeriti professionisti del cinema.
Ma il merito di aver lavorato, e di aver denunciato un sistema metodicamente discriminatorio, sessualizzato e ricattatorio?
L’inversione del focus dovrebbe, invece, esser quello di empatizzare verso chi è inviluppata nel sistema, per ottenere un sistema preparato e specializzato che giudichi e valuti in base ai requisiti richiesti per questa o quell’altra mansione e non in base alle prestazioni sessuali ricevute e prestate.

Non è la prestazione concessa, il problema, ma la prestazione pretesa e poi accettata.

Si è innervata una pericolosa troiofobia che oscura il vero problema: la frequente assenza di requisiti di merito nelle selezioni per determinate mansioni nel mondo dello spettacolo, non avviene per merito di chi accetta il ricatto sessuale, ma per demerito di chi lo propone. Ma se questo è il problema: chi ne è l’artefice? Chi ha sistematicamente pasciuto un ambiente dello spettacolo in queste vesti, o chi ne ha subito le conseguenze?
Non è spostando l’onere del rifiuto e il rischio della denuncia su chi subisce, anello debole di un sistema ricattatorio, che si ingenera una rivoluzione del mondo del lavoro ad alto ricatto sessuale, ma cogliendo il rapporto di potere e dominazione che si instaura fra chi domanda forza lavoro, e chi ne offre, denunciandone gli effetti e i profitti.
Cos’è, al netto, il ricavo economico e sociale di una carriera costruita su molestie, minacce e violenze sessuali, rispetto agli ingenti profitti e posizioni di potere di coloro che ne hanno usufruito?
Il consenso, anche se dato consapevolmente, in scambio di una posizione di lavoro conferma solo un arricchimento sperequativo di chi ha richiesto la prestazione, in termini di ricatto e in termini di dominio e di creazione di un legame di subordinazione con la lavoratrice. Chi è che ci ha guadagnato davvero?
E’ davvero questo, che ci indigna, indagare a fondo nella vita privata di una persona per scoprire se ha effettivamente o meno elargito un rapporto sessuale, sviscerare quanto il consenso estorto sia stato ripagato con benefici e carriere?
A me francamente indigna sapere che ci sono parti datoriali, dequalificanti e dequalificate che utilizzano il ricatto sessuale per selezionare soggetti che non sono in una posizione giuridica altrettanto forte. Che non hanno una posizione contrattuale altrettanto paritaria.

Che ne abbiano poi tratto un qualche beneficio non desterà la mia attenzione finché ci sarà una parte datoriale che, confermando il suo dominio indefesso, ne avrà tratto qualcosa a costo zero.

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