Femminilizzazione e de-generazione della scuola

Il Decreto sulla Buona Scuola è diventato un disegno di legge e in questi giorni è all’esame in commissione cultura della Camera.
La riforma della scuola è stata un po’ il cavallo di battaglia del governo Renzi per acquistare consensi. E’ stata presentata dal premier stesso – nonostante una ministra dell’istruzione, a differenza di quella/o delle pari opportunità, ce l’abbiamo – in pompa magna con dirette televisive, piattaforme dalla grafica accattivante per finti esercizi di democrazia diretta e soprattutto promesse di assunzioni, con numeri ballerini e in caduta libera, di persone a cui quell’assunzione spetterebbe di diritto e pure da un bel po’ di tempo.
La riforma Gelmini, quella che ha tagliato fondi e posti di lavoro, non viene minimamente toccata, anzi viene data per acquisita e la sua opera viene proseguita dalla buona scuola di Renzi.

La macchinosità del sistema di istruzione pubblico italiano, le svariate tipologie di formazione, assunzione ecc.. rendono quasi incomprensibile questa materia a chi vive da fuori questo mondo, e spesso anche a chi vi è dentro. Questo aiuta a fare della scuola una proficua piattaforma di propaganda politica, da cui trarre consensi con slogan del tipo: “eliminiamo il precariato” e “premiamo il merito”.

La verità è che la Buona Scuola è un po’ il JobsAct applicato all’istruzione pubblica, cioè precarizzazione del lavoro e sua liberalizzazione, con il risultato che la figura del/della “docente di ruolo” non esisterà più e le aziende private potranno investire nelle scuole scegliendo quelle che a loro aggradano di più, che con molta probabilità non saranno le scuole di quartieri svantaggiati con soffitti cadenti, e andando a limitare fortemente la libertà di educazione, perchè i privati non sono buoni samaritani che investono i loro soldi senza un tornaconto personale.

A dirigere la nuova scuola-azienda sarà il Dirigente Scolastico, che tra gli svariati superpoteri di cui sarà dotato, alla faccia della gestione democratica della scuola pubblica, c’è quello di assumere i/le precari/e, con modalità sinceramente ancora non chiarissime.
Alla notizia della direzione verticalistica della scuola e del ruolo del/della preside-dirigente nella scelta del personale, diversi gruppi sui social network che si occupano di scuola, hanno elaborato profonde critiche politiche nei confronti di questo passaggio della riforma.
Una delle analisi che ha avuto maggior diffusione è quella espressa nella seguete foto accompagnata da questa frase:

“Ciao sono la nuova insegnante scelta dal Dirigente scolastico, oggi parlaremo dell’isola dei famosi”

10460679_10206813065273508_6071233370627190150_nSeguono commenti entusiasti del tipo: “Evviva, quando passa questa riforma?”, nostalgici come: “Vorrei tornare tra i banchi di scuola pure io con un’insegnante così!”, bacchettoni: “Ma quanta volgarità!” o richieste di pari opportunità, di solito soddisfatte con foto di un figo dai pettorali scolpiti. E non manca nemmeno il simpaticone: “Ah ma non era la buona scuola, ma la bOna scuola!ahahah”

Qull’immagine e la didascalia che l’accompagna racchiudono diversi stereotipi sessisti. La bella ma scema, la donna che se ha un posto di lavoro è perchè l’ha barattato con favori sessuali, la presunzione di eterosessualità estesa a tutti i dirigenti scolastici.

In realtà il numero di donne che ricoprono il ruolo di dirigenti scolastiche, un tempo presidi, è aumentato notevolmente negli ultimi anni, questo a testimonianza che il processo di femminilizzazione della scuola sta investendo anche i piani alti e non potrebbe essere altrimenti visto che nella scuola pubblica italiana, ma i dati europei non differiscono molto, la presenza maschile è sempre più bassa.

La scuola dell’infanzia ha una percentuale di donne pari quasi al 100%, questa scende di pochissimo nella scuola primaria, siamo infatti a quota 94,6%, le donne sono il 73,3% nella scuola media e il 58,8% nella scuola secondaria, con grandi differenze tra le diverse tipologie di istituti, le scienze umane, ex psicopedagogico, hanno una elevata presenza di donne, il loro numero è invece molto basso negli istituti tecnici industriali. ( Fonte OCSE 2010).

Cosa ci raccontano queste percentuali? Dov’è il problema se tante donne lavorano? Dobbiamo chiedere le “quote azzurre”?
fc,550x550,white.u6Il problema della femminilizzazione della scuola non risiede nel fatto che ci lavorano molte donne, ma piuttosto nell’applicazione di modalità di lavoro considerate tradizionalmente femminili.

Il lavoro dell’insegnante è quello che più di altri permette la conciliazione con il lavoro domestico e di cura, e la sua progressiva femminilizzazione ha trasformato lo stesso lavoro a scuola in un lavoro di cura, quindi soggetto a tutta una serie di conseguenze: svalutazione sociale ed economica, mole di lavoro gratuito, spirito di sacrificio, eliminazione del confine tra vita privata e vita lavorativa.

Correggere i compiti, preparare le verifiche, partecipare, spesso a proprie spese, a corsi di aggiornamento, sono compiti che non solo non hanno un adeguato riconoscimento economico, ma che invadono completamente il cosiddetto tempo libero trasformandolo in tempo di lavoro, esattamente come succede nel lavoro di cura, dove l’assistenza ai/alle figli/e e a genitori anziani, l’esecuzione di mansioni domestiche ecc… non vengono riconosciute economicamente e sottraggono costantemente alle donne tempo per altro.

Un ulteriore fattore che dimostra la trasformazione del lavoro dell’insegnante in lavoro di cura in seguito alla sua crescente femminilizzazione è dato dal costante riferimento alla dimensione vocazionale e quasi di destinazione biologica delle donne per questo lavoro. Questo vale soprattutto per la scuola dell’infanzia, nella tradizione italiana “materna”, dove il lavoro, nell’esaltazione della dimensione affettiva piuttosto che quella pedagogica, viene considerato più “adatto” alle donne, “naturalmente” materne e “portate” a lavorare con i bambini.
Femminilizzazione del lavoro significa anche precarizzazione.
La scuola italiana è infatti grande produttrice di lavoro precario. Sono tantissim* i/le precari/e della scuola che vengono licenziati/e a Giugno e riassunti/e (forse) a Settembre e la condizione di pracaria/o può andare avanti per anni e anni, dieci, venti, trenta, con la promessa di una stabilizzazione che arriva tardissimo o addirittura non arriva mai.
Questo modello, sperimentato per anni con la scuola, tende oggi ad investire l’intero mondo del lavoro, ne è un esempio il contratto a tutele crescenti contenuto nel JobsAct, la stabilizzazione si sposta in avanti, ma per ora lavori senza tutele.

C’è poco quindi da fare “ironia” con foto sessite, la Buona Scuola del governo Renzi è la degenerzione totale di un sistema già di per sè malato, alla quale dovremmo rispondere con una de-generazione della scuola, tornando o iniziando a investire nella scuola pubblica, bloccando quel meccanismo per cui il lavoro dell’insegnante è sempre più precarizzato e, in quanto estensione del lavoro di cura, sempre più svalutato.

 

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