Ancora “porno soft pubblicitario”: bocce e fellatio

La Convenzione di Istanbul è un utile strumento che l’Italia ha ratificato per il contrasto e la prevenzione della violenza di genere.

La Convenzione riconosce nella cultura patriarcale la matrice della violenza di genere e indica chiaramente, tra le misure da adottare, un cambiamento di linguaggio, anche e soprattutto quello dell’informazione e dei media in generale.

Bisogna lavorare per modificare i modelli culturali e per farlo occorre incidere su ogni tipo di linguaggio, compreso quello pubblicitario che troppo spesso lancia messaggi sessisti e rappresenta la donna in situazioni umilianti, sottomessa all’uomo, imprigionata in stereotipi vecchi e degradanti.

Anche attraverso il linguaggio pubblicitario, infatti, si dà forma al mondo, se ne costruisce una rappresentazione, si definiscono le identità delle persone.

Sappiamo bene, per esempio, che gli spot pubblicitari che mostrano le faccende domestiche, la cura della casa, e l’occuparsi dei figli come compiti esclusivamente (o di grande prevalenza) femminile, contribuiscono a rafforzare l’idea comune che la famiglia e la casa siano solo “roba da donne”, con implicazioni serie nella vita di ogni donna: scarsa condivisione del lavoro domestico, multitasking, problemi sul lavoro, ecc.

L’altro stereotipo per eccellenza che riguarda le donne e la pubblicità è quello che rappresenta le donne come oggetti sessuali, asservite al desiderio maschile.

Il peggio del peggio è quando una donna non viene nemmeno mostrata come persona, a figura intera, ma smembrata, fatta a pezzi, identificata con una sola parte del corpo, fortemente sessualizzata.

E’ la mercificazione del corpo femminile per eccellenza, lo svilimento assoluto della persona, la riduzione a oggetto del corpo e/o del rapporto sessuale, quasi sempre a beneficio di un ipotetico consumatore maschio, bianco ed eterosessuale.

In questi giorni abbiamo ricevuto un paio di segnalazioni che riguardano pubblicità che utilizzano il corpo femminile per vendere prodotti che nulla hanno a che vedere con la sfera sessuale di una persona e/o con il corpo della stessa. Si tratta, sostanzialmente, di utilizzare una parte fortemente sessualizzata del corpo femminile o la simulazione di un rapporto orale che nel nostro Paese hanno ancora molto appeal e risultano ancora troppo spesso di scontato utilizzo, dal momento che, per molte persone ancora, il maggior valore di una donna è la sua avvenenza e la sua disponibilità sessuale (passiva).

La prima è un’affissione a Messina:

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Come vediamo, ci sono tutti gli elementi classici di una pubblicità offensiva e non rispettosa della donna.

Il volto non viene mostrato, la sola parte della persona che viene rappresentata è il seno, quasi “offerto” allo sguardo del probabile cliente maschio eterosessuale, squallidamente paragonato alle palle da bowling, con un gioco di parole di bassissimo livello: “nuove bocce al bowling”.

Come meravigliarsi se le molestie a sfondo sessuale, le palpatine, gli sguardi insistenti sulle varie parti anatomiche del corpo femminile, le frasi di apprezzamento sul corpo femminile siano ritenute quasi come un’attenzione che la donna dovrebbe gradire, quando si continua a mostrare la donna come un oggetto in esposizione, alla portata di tutti, in offerta?

Speravo che pubblicità come queste fossero ormai un penoso ricordo, invece mi rendo conto che ricorrere a questi mezzi da “commedia all’italiana”, porno soft e voyeuristici, grossolani, grezzi e volgarotti, viene ancora giudicato come fattibile, magari anche simpatico e ironico.

La seconda immagine si trova all’interno di una rivista:

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In questo caso, sviliti sono i due protagonisti dello spot, ancora una volta senza volto, smembrati, ed anche il rapporto orale che non viene mostrato, ma solo suggerito.

Che bisogno c’è di utilizzare la simulazione di un rapporto orale per vendere le scarpe? 

Sesso strumentalizzato, mercificato.

Una comunicazione pubblicitaria che ha un forte impatto negativo anche sull’immaginario delle persone.

Speravo davvero di non vedere più niente del genere. Peccato: speranza delusa.