Moda e Violenza. The Wrong Turn: lo stupro ti fa bella.

Violenza e moda sono legate a doppio giro. Sia perchè la moda sfrutta il tema della violenza sulle donne per vendere magliette, mutande, braccialetti, sia invece perchè la violenza diventa accessorio glamour di bellissime vittime di assassini e stupri.

Dolce-and-Gabbana

Il pericolo è sensuale, eccita, apre immaginari erotici.
Ma nelle foto “di moda”, c’è solo l’ estetizzazione di una violenza che diventa essa stessa prodotto, banalizzazione della violenza vera, tanto simile, ma per niente attraente. Quella stessa, volgare, estetizzazione retorica della violenza che opera la televisione di intrattenimento giornalistico, l’infotainment, in merito a femminicidi, stupri e aggressioni reali.
Nel post “Estetizzazione e banalizzazione della violenza“, Enrica giustamente scriveva

Un uso strumentale e spettacolarizzato della violenza danneggia le donne.
Le danneggia tutte, perché la violenza non è un fatto privato, ma nello stesso tempo non è nemmeno un prodotto, non è nemmeno un vessillo da sbandierare per farsi campagna elettorale, non è niente di cui si possa fare un uso strumentale.
Entrati nei grandi circhi mediatici femminicidi, stupri e violenze diventano dibattiti da salotti del pomeriggio, dove tra le foto delle “famose” in vacanza e l’intervista alla vip semisconosciuta che racconta come sia tornata in forma dopo la gravidanza e quanto l’esperienza della maternità l’abbia fatta sentire veramente donna, compare il servizio sul femminicidio, solitamente quello che ha avuto maggiore risonanza mediatica, e tra lo psichiatra che sforna diagnosi, Alessandra Mussolini che invoca le forche, la telecamera che si sofferma sulla maschera di dolore sul viso della conduttrice per poi scendere indugiando sul suo tacco 12, va in scena la “banalità del male”.

 
Violenza glamourizzata nelle riviste di moda, violenza per fare audience, violenza spettacolarizzata per saziare gli istinti voyeuristici di un pubblico sempre più affamato di particolari macabri. Questa è pornografia. Ma di quella brutta.

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E’ di pochi giorni fa il servizio fotografico “The Wrong Turn” del fotografo indiano Raj Shetye, che ritrae una donna attraente ed elegante su un autobus, aggredita e molestata da vari uomini. Un servizio che evidentemente rimanda al caso di stupro di Nuova Delhi del 2012, quando una studentessa di 23 anni fu aggredita e seviziata da 4 uomini su un autobus. La ragazza morì in ospedale per la gravità delle ferite riportate. Oggi il suo ricordo echeggia inquietante nelle foto glamour di Shetye.

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The wrong turn Non è basato sulle vicende di Nirbhaya [ pseudonimo della vittima, ndr ]“

ha dichiarato il fotografo a Buzzfeed

“Non intendevo rendere glamour l’atto, che in sè è stato molto cattivo. E’ solo un modo di gettare luce su quanto accaduto. […] Il messaggio che volevo dare è che non importa chi sia la ragazza, o a quale classe appartenga, può succedere a tutte”

Sono in molti però a trovare poco credibili le parole di Shetye, che di certo non ha realizzato una campagna contro lo stupro, ma un servizio fotografico di alta moda sfruttando canoni radicatissimi di commistione tra fashion e violenza.
Uno dei primi a prendere parola è stato Vishal Dadlani, direttore musicale di Bollywood, seguito poi da innumerevoli tweet e commenti sui social network.

indiaHo per caso appena visto un servizio di moda che ritrae lo stupro di Nirbhaya a Dehli? Disgrustoso!! Spero che tutti i responsabili muoiano di vergogna! Insensibili porci!

Questo non è certo il primo servizio di moda ad usare la violenza per attirare l’attenzione o, per dirla con le parole dei fotografi più quotati, per creare delle contraddizioni tra la bellezza degli oggetti e l’orrore del sangue.
Vogue Italia realizzò un servizio dal titolo “Cinematic”, per cui fu accusata di filtrare immagini di violenza domestica attraverso le lenti del cinema. Le foto ritraevano delle modelle morte in maniera violenta nelle loro case. Il video di accompagnamento, un piccolo spot horror, mostrava una modella in fuga da un maniaco omicida, alternata ad un altra donna, morta, a gambe spalancate.

Anche in questo caso, il servizio fotografico è stato giustificato come mezzo per sensibilizzare e far parlare di un tema caldo come la violenza sulle donne. Dice Franca Sozzani di Vogue Italia al Corriere della Sera

Ho pensato che proprio la moda, un mondo così mediatico e che sembra avulso da questioni sociali così tangibili e note, potesse supportare, o meglio dovesse supportare la lotta contro questo fenomeno sempre più comune

Ma in che modo estetizzare e rendere seducente la violenza può aiutare a cambiare il sistema culturale che alimenta, se non genera, la violenza stessa?
Solo in Italia, in questo ambito abbiamo vari esempi illustri: c’è stato il calendario Pirelli con lo stupro di gruppo sulla bella modella nera, il calendario delle studentesse, la pubblicità del panno che rimuove le tracce dello stupro, e poi la pubblicità di Dolce e Gabbana con la modella immobilizzata a terra da un gruppo di uomini, quella di Sisley con la modella legata, la faccia contrariata, il volto sfatto.

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Lo violenza sulle donne è estremamente di moda, in tutti i sensi.
Eppure, il servizio fotografico indiano di questi giorni supera un limite che forse era rimasto ancora invalicato.
Ritrarre una violenza non solo pornografica, voyeuristica, ma davvero avvenuta.
E che ha persino provocato la morte della donna ritratta.
Il fotografo sostiene che non si tratti direttamente del racconto di quei fatti, ma un’ispirazione diretta alla vicenda è innegabile, se non scientemente ricercata.

L’industria della moda e tutto ciò a cui questa è correlata, cosmetica ed estetica in genere, è quella che più direttamente vive delle fascinazioni che riesce a creare sulle donne di tutto il mondo.
Così impone criteri estetici fuorvianti, fatti per lo più di photoshop, privi di imperfezioni, di carne, di pelle.
Le donne sono tutte lucide grazie all’airbrushing, tutte simili grazie all’ambizione della taglia zero e all’esclusione dei corpi non normati.
Le campagne contro l’imposizione di canoni estetici artefatti e poco realistici, servono sempre meno, considerando la scarnificazione costante dei modelli femminili.
Dalla taglia zero, alla taglia doppio zero, nata circa otto anni fa, arriviamo alla triplo zero, tramutando l’ossessione della magrezza di milioni di donne in una corsa ad entrare nei vestiti più fashion pensati solo per “super skinny”.
Tutto in nome dell’ambizione di piacere. Non a se stesse, ovviamente.
Per il bisogno indotto di entrare in un vestito si può diventare anoressiche, per quello di mettere tacchi altissimi, capaci di distruggerci postura e ossa, si può arrivare ad amputarsi i mignoli.
Si può trovare attraente la violenza su noi stesse per assecondare un gusto che abbiamo introiettato chissà da chi.
Possiamo ossessionarci per tutta la vita per assomigliare a modelle di plastica, modificate, che mai rispetteranno completamente l’immagine, seppur bellissima, di quella stessa donna nella realtà. Possiamo decidere di lasciarci escludere perchè qualcuna è grassa, qualcuna è bassa, qualcuna non è mai abbastanza magra e alta oppure è vecchia o ha delle disabilità.
Oppure potremmo pensare a quello che queste immagini sono realmente.
Manipolazioni delle identità.
Imposizioni di un modello unico, irraggiungibile, capace di farci spendere centinaia di euro per cercare di assomigliarvi.
Narrazioni di violenze e abberrazioni rese eleganti e di moda per educarci a piacere sempre, anche durante uno stupro, anche da morte.
Guardate in macchina, continuate a sorridere, click. Bellissime.

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