Parlare di modificazioni genitali femminili fuori dalla retorica umanitaria

La data del 6 febbraio è stata scelta dalle Nazioni Unite come Giornata Mondiale contro le mutilazioni genitali femminili.
Di MGF avevo già scritto in questo post nato dalla lettura di un libro di Federica Ruggiero in cui si parlava di modificazioni genitali femminili a partire da una prospettiva postcoloniale. Cercando di recuperare quella prospettiva mi piacerebbe affrontare l’argomento uscendo fuori dalla retorica della “barbarie” e dello “scontro di civiltà”, con un intento assolutamente non giustificazionista, ma nel tentativo di restituire tutta la problematicità di un argomento che va analizzato con i giusti strumenti concettuali e non con una retorica che parla “alla pancia”.

Modificazioni e non mutilazioni. Non solo un cavillo linguistico ma una presa di posizione che parte soprattutto dagli studi antropologici che con il termine modificazioni vogliono mantenere aperto un dialogo con le donne direttamente coinvolte in queste pratiche, consapevoli che la soluzione non possa arrivare da un mandato affidato ad associazioni umanitarie, donne civilizzatrici o leggi punitive, ma bensì da un coinvolgimento delle donne che vivono nei territori in cui le MGF si praticano, le quali magari non le leggono come mutilazioni.
L’appello alla tradizione o alla ritualità culturale e religiosa non vuole essere una ulteriore semplificazione o atteggiamento di benevolenza, ma solo una contestualizzazione necessaria per comprendere pratiche molto eterogenee tra loro.

Le diverse forme di modificazione dei corpi. (immagine da: http://www.bandieragialla.it/node/24346)

Le modificazioni genitali femmnili, classificate dall’Organizzazione mondiale della sanità in quattro categorie, che comprendono pratiche più o meno invasive, oggi vengono sempre più frequentemente introdotte nei discorsi sulla violenza contro le donne, in realtà questa è una prospettiva un po’ riduttiva che ignora i ricchi studi antropologici sul tema.

Le MGF rientrano nelle pratiche di costruzione sociale e culturale  del sesso e del genere, quindi dei corpi, che si differenziano nelle varie culture e nelle varie epoche. Sono spesso riti di passaggio, di iniziazione, di “purificazione” del sesso/genere attraverso l’eliminazione, riduzione, modificazione o potenziamento di parti del corpo considerate ambigue; anche per questo motivo in molte zone in cui si praticano modificazioni dei genitali femminili si agisce anche su quelli maschili.
Ma l’Organizzazione mondiale della sanità non riconosce come mutilazione la circoncisione maschile, la quale  nel corso degli anni ha parzialmente perso la sua ritualità ed è stata medicalizzata, pur rimanendo un intervento che viene agito su neonati, quindi senza consenso.
Paradossalmente la circoncisione maschile non viene condannata e non riceve l’attenzione riservata alle modificazioni genitali femminili.

Sul ricondurre le MGF all’interno di un discorso generale sulla violenza contro le donne, tendenza che negli ultimi anni caratterizza diversi approcci umanitari, Michela Fusacchi, antropologa autrice del libro “Quando il corpo è delle altre”, in questa intervista sostiene che:

 “Mettere tutto nello stesso calderone è un grande errore e nasconde una profonda ignoranza. A mio avviso, l’effetto è quello di sminuire ciò contro cui si combatte. Parlare ad esempio di mutilazioni genitali perpetuate durante i conflitti etnici è un altro grosso errore, perché non hanno niente a che fare con le mgf. Sicuramente, il fatto di aggiungere eventi diversi aumenta il drenaggio di fondi alle ong. È una questione di marketing dell’umanitario!”

Quando si parla di MGF lo si fa spesso ricorrendo a stereotipi e informazioni parziali e non sempre corrette che non riconoscono la complessità e la diversità delle pratiche, che cambiano negli scopi e nelle modalità da cultura a cultura,  ma le inseriscono nel calderone delle mutilazioni genitali femminili, magari riconducendole tutte a una volontà patriarcale di limitare il piacere delle donne o mettendole tutte in qualche trafiletto di qualche protocollo istituzionale contro la violenza di genere.

Immagine di una campagna del 2008 commissionata  da Association of Women Against Genital Mutilation. "Oltre 140 milioni di donne destinate a non sentire nulla". Una lettura stereotipata e limitante delle mgf come tutte intenzionalmente giustificate dalla volontà di privare le donne del piacere sessuale
Immagine di una campagna del 2008 commissionata dalla Association of Women Against Genital Mutilation. “Oltre 140 milioni di donne destinate a non sentire nulla”. Una lettura stereotipata e limitante delle mgf come tutte intenzionalmente giustificate dalla volontà di privare le donne del piacere sessuale

Il linguaggio con cui se ne parla è spesso sensazionalistico, scandalistico, voyeuristico, “barbarie”, “inciviltà”, “orrore senza fine”, anche se in realtà queste pratiche vengono attuate non sempre in situazioni considerate “arcaiche”” ma nei centri urbani “civilizzati” o all’interno di contesti migratori. Vengono realizzate annualmente campagne e video di sensibilizzazione che spesso richiamano un immaginario colonialista che considera le donne non occidentali sempre e solo vittime di una cultura retrograda; molte di queste produzioni fatte con lo scopo di aumentare la consapevolezza sulle MGF ricorrono alla spettacolarizzazione dei corpi delle donne, favorendo la retorica razzista del corpo-schiavo contro il corpo-liberato. Scrivono a questo proposito Cristina Cenci e Silvia Manganelli:

Da barbarie esotica le mutilazione dei genitali diventano pericolo, minaccia, allarme per le immigrate, ma anche e soprattutto per l’Italia che le accoglie. Si diffondono cifre spaventose: le bambine a rischio sarebbero 6 mila o addirittura 20 mila ( in realtà sono poco più di 500 secondo stime attendibili, basate sui dati del Ministero dell’Interno). Il discorso della stampa costruisce progressivamente uno stereotipo […] che reinventa il corpo dell’immigrata come alterità mostruosa rispetto allo schema corporeo occidentale. questa alterità diventa lo strumento per denunciare l’incompatibilità dello straniero con i valori fondamentali e irrinunciabili della società di accoglienza. Il corpo-stigma dell’infibulata diventa un confine reale e simbolico tra “noi e “loro”.

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Immagine proveniente dal sito del noto politico Magdi Cristiano Allam che mostra l’uso strumentale dei diritti delle donne in chiave razzista. La retorica della barbarie sulle mgf contribuisce a favorire questo clima.

In Italia nel 2006 viene introdotta una legge punitiva nei confronti delle MGF, che di fatto introduce due nuovi reati: mutilazione e lesione dei genitali femminili, punibili con il carcere da 6 a 12 anni. Trattasi di una legge che punisce delle azioni in base all’appartenenza etnica di chi le compie, che si rivolge in Italia essenzialmente alla popolazione migrante, configurandosi in questo modo come una legge razzista, considerando anche il fatto che il nostro codice penale prevedeva e sanzionava già i reati di lesione grave e gravissima in cui potevano essere fatte rientrare, e prima del 2006 così accadeva, le modificazioni genitali femminili.
Questa legge ad hoc, con un approccio esclusivamente criminalizzante, che tra l’ altro non prevede asilo politico per le donne che vogliono sottrarsi a queste pratiche, non solo potrebbe far aumentare il sommerso e quindi accrescere l’esposizione al rischio di bambine e adolescenti, ma è palesemente in contraddizione con alcune pratiche che vengono compiute su neonat* o bambin*, assolutamente giustificate se non incoraggiate, come la circoncisione maschile e la riassegnazione del sesso per i neonati intersex.
In questo articolo del 2013 si elogiava l’aumento degli interventi su neonati intersessuali al san Camillo di Roma come un successo, l’intervento chirurgico veniva presetato come assolutamente risolutivo per questo “disturbo”; Come mai in questi casi non si parla di mutilazioni? Queste pratiche non sono in palese contrasto con la legge del 2006 contro le mutilazioni genitali femminili? O no perchè valida solo per i genitali femminili? E perchè parla solo di genitali femminili?

[…] donne o uomini non si nasce, lo si diventa. Fin dalla nascita di un individuo, la definizione del suo sesso non è data per scontata e anzi ha bisogno di essere costruita mediante rituali e imposizioni di marchi simbolici, talvolta impressi nella sua carne, che valgono come segni di appartenenza a quella cultura particolare ( Annamaria Rivera “La bella, la bestia e l’umano”, cap. quinto I dilemmi della società pluriculturale)

Le modificazioni genitali femmminili rientrano in quelle pratiche di controllo biopolitico attraverso le quali diversi dispositivi di potere agiscono sui nostri corpi per normalizzarli e renderli corrispondenti a precisi modelli, questi dispositivi di potere agiscono in tutte le società, comprendere questo significa mettere da parte la retorica della barbarie, rinunciare a maratone dei diritti umani e missioni civilizzatrici che sono solo funzionali a discorsi razzisti e per niente utili dal punto di vista pragmatico. Magari può essere anche utile ricordare che nel XIX secolo la clitoridectomia veniva praticata in “Occidente” come soluzione medica per la cura dell’isteria.
Per parlare proficuamente di mgf bisogna farlo uscendo dalla prospettiva etnocentrica e comprendendo che anche il “nostro” corpo non è libero ma costruito simbolicamente e materialmente dal contesto in cui vive.

Sullo stesso argomento puoi leggere anche:

Modificazioni genitali femminili. Un approccio postcoloniale

 

Una risposta a “Parlare di modificazioni genitali femminili fuori dalla retorica umanitaria”

  1. Credo di avere capito quello che Enrica voleva comunicare, ma in assenza di una chiara descrizione di cosa sia una “modificazione” l’articolo appare ambiguo e poco comprensibile. mutilazione è ovviamente tagliare una qualunque parte del corpo che non può ricrescere, ma una cosa è tagliare un dito della mano a un pianista, una cosa è tagliare un dito di un piede a un impiegato. una cosa è sbucciare il pisello a un maschio che continuerà a provare piacere e una cosa è togliere il clitoride a una donna che non proverà più piacere. una cosa è scegliere di tatuarsi un’aquila sulla schiena, una cosa e farsi tatuare “troia” sulla fronte e dovere andare in giro a fronte scoperta. secondo me l’intento era quello di non demonizzare per facilitare il dialogo e quindi il superamento, ma per trovare tale intenzione devo scavare veramente tanto: aggiungerei qualche chiarimento.

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