Il mondo “al femminile”: quote rosa, disparità salariale, cultura degli harem

Concorsi al femminile. Borse di studio al femminile. Incentivi per start up al femminile. Rassegna di cinema al femminile.

Al femminile, al femminile, al femminile, al femminile.

Aumenta, di pari passo  con l’attenzione mediatica per le tematiche gender friendly, anche la presenza di eventi, bandi e selezioni destinati a sole donne. Quote rosa non solo politiche, ma ormai sempre più capillarmente radicate in ogni ambito culturale ed economico.

quote rosaLe quote rosa sono un tema sempre caldo nella lotta al sessismo, tra le sostenitrici della necessità di intervento e chi le rifiuta nettamente come soluzione affatto rivoluzionaria.
La richiesta di quote minime di presenza femminile negli organi politici istituzionali, elettivi e non, nasce dalla scarsa presenza delle donne in questi stessi organi e dal difficile accesso ai luoghi di potere e di carriera. In Italia il disegno di legge presentato nel 2005 dalla ministra Prestigiacomo non è mai stato definitivamente approvato, lasciando in sospeso il dibattito in merito alla reale utilità delle quote rosa o alle sue implicazioni etico-culturali.

Eppure già lo stesso nome “quote rosa” tradisce la necessità di relegare le donne a un piccolo mondo pastello a cui verrà concesso di entrare nel “mondo vero” solo in base a una legge, non per qualche reale cambiamento della società che le circonda.

Un esempio?

Le borse di studio nel settore tecnico-scientifico riservate a donne finanziate da Mediagroup forse faranno sentire le donne ben accette, le sproneranno a partecipare a un mondo del lavoro quasi totalmente maschile.

Se però contemporaneamente all’istituzione di borse per donne in informatica, fisica, ingegneria, matematica, un colosso informatico come Apple propone di farsi carico delle spese del congelamento degli ovuli delle proprie dipendentiecco la conferma che il mondo del lavoro scientifico non è davvero intenzionato ad accettare le donne.
Perchè questo significa assumere individui che, secondo una scelta del tutto personale, potrebbero rimanere incinta ed avere figli e voler essere tutelate sul lavoro anche durante la maternità.

Da una parte l’incentivo a studiare, dall’altra però l’invito a conciliare il dilemma tra famiglia e carriera non dividendo il carico di lavoro domestico con un partner, non rivendicando il diritto all’ambizione femminile, ma soggiogando completamente l’autodeterminazione alle necessità di profitto di una multinazionale.

Questa proposta di aziende come Apple e Facebook per alcune è una conquista. Scrivono su “Donne di Fatto”, quartiere rosa de Il Fatto Quotidiano:

Nel tech-world, ancora largamente dominato dagli uomini, dare la possibilità di programmare una famiglia a lungo termine, offrirebbe un’attrattiva in più per le lavoratrici, assicurando il loro talento all’azienda. Donne che magari non hanno ancora trovato il loro principe azzurro o che prima vogliono concentrarsi su studio e carriera. […] I maligni sostengono che dando la possibilità di congelare i propri ovuli si ceda a un ricatto mascherato, rischiando di vendere la propria anima al diavolo. Una dipendente a cui viene dato questo incentivo, più difficilmente si guarderà intorno e resterà attaccata all’azienda.

Il congelamento degli ovuli è un’attrattiva in più per le lavoratrici. I maligni ci vedono del marcio, ma si sa, malignano. 
La possibilità data alle donne per entrare “come un uomo” in una grande società informatica, non è fatta di divisione dei ruoli gendergapdentro e fuori casa, di congedi parentali, di paternità responsabile, di una famiglia differente da quella tradizionale, da una considerazione paritaria delle donne, bensì prevede di delegare la decisione di fare o meno un figlio a un’azienda supercool a cui donare i propri ovuli per essere consacrate super manager. O attendere il principe azzurro.

Prevedere una preferenziale per le donne, in un momento storico in cui si è ancora ben lontani dalla totale parità dei generi e ancor di più dalla fine della discriminazione, non è imporre, ma rimandare un cambiamento.
Offrire borse di studio, facilitazioni occupazionali, quote rosa, non combatterà ad esempio il divario salariale tra uomini e donne.
Nel documento “Affrontare il divario salariale fra uomo e donna nell’Unione europea“, prodotto durante l’ultima Giornata europea 2014 per la parità retributiva, si legge che:

Nell’Unione europea le donne in media guadagnano circa il 16% in meno degli uomini. Questa forbice varia a seconda dei paesi: inferiore al 10% in Slovenia, Malta, Polonia, Italia, Lussemburgo e Romania sfora il 20% in Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca, Germania, Austria e Estonia.

Per quanto si siano ridotte globalmente negli ultimi dieci anni, le asimmetrie salariali tra donne e uomini vanno accentuandosi in alcuni paesi (Ungheria, Portogallo) e persistono nonostante le donne siano più brave degli uomini negli studi: in media nel 2012 l’83% delle donne aveva ottenuto almeno un diploma di istruzione secondaria superiore nell’UE, contro il 77,6% degli uomini, e le donne rappresentano 60%3 dei laureati.

Il divario retributivo di genere è un fenomeno  imputabile a una serie di fattori interconnessi e che riflette ampie disparità di genere socio-economiche.

A volte le donne sono pagate meno dei loro omologhi maschili anche quando svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari grado. Oltre alla cosiddetta «discriminazione diretta», consistente in un trattamento meno favorevole di cui le donne sono il principale bersaglio, esistono pratiche o politiche che, sebbene non concepite con l’intento di discriminare, finiscono per generare asimmetrie salariali di genere. […] Le donne e gli uomini trovano spesso lavoro in settori diversi e svolgono mansioni differenti.  I settori a prevalenza femminile hanno in genere salari più bassi di quelli a prevalenza maschile. […] Molto spesso lavori svolti tradizionalmente da uomini sono ritenuti superiori a quelli esercitati dalle donne: un magazziniere guadagnerà sempre di più ad esempio di una cassiera di supermercato.

Accogliere con favore borse di studio al femminile, senza preoccuparsi di pretendere una situazione occupazionale paritaria, non risolve un problema, rimanda un cambiamento.

E questa concezione del femminile da promuovere, al pari in questo momento del giovanilismo galoppante che ci circonda, si espande ad ogni ambito, anche quello artistico-culturale.
Concorsi letterari per sole donne, bandi di concorso per residenze artistiche al femminile, rassegna di cinema delle donne.
Di nuovo, questo slancio parte dalla sostanziale invisibilità delle donne dal campo artistico, per quanto lo occupino anche con grandi risultati. Ma, di nuovo, non risolverà lo stesso problema delle scienziate: la reale possibilità di impiego nel campo dell’arte e della cultura per delle donne, la conciliazione con l’eventuale vita familiare, la diversa considerazione del lavoro di un uomo da quello di una donna. 

Donne costrette a parlare solo di donne, per essere ascoltate. E allora libri, spettacoli teatrali, film fatti da donne sulle donne, come se essere una donna esaurisse di per sé le necessità espressive e comunicative di un’artista.

Mentre agli uomini viene lasciato lo spazio di parlare di tutto, tranne possibilmente della loro identità di genere.

la_quota_rosaPartendo dalle quote rosa in politica, passando per le borse di studio in ambito di scientifico e tornando all’arte, giocare ad armi pari non vuol dire assicurare la presenza delle donne, ma assicurare che queste donne possano aspirare a impieghi equamente retribuiti, a maternità garantite e non congelate, a potersi esprimere sul tutto e non sulla parte, al femminile, che è riservata loro. E’ un processo più difficile e non facilmente riassumibile in uno slogan “al femminile”, ma le mode di costume non hanno mai rivoluzionato la struttura di una società. Che è ancora tutta al maschile.

Elsa Morante si definiva scrittore, al maschile, perché

il concetto generico di scrittrici come di una categoria a parte, risente ancora della società degli harem.

Il concetto generico di donne, verrebbe da dire oggi, nel mondo del lavoro di qualsiasi tipo, risente ancora della società degli harem. E dei ghetti. Le donne, come categoria a parte, rispetto ai “lavoratori uomini” sono un concetto che sfavorisce la lotta alla parità salariale e culturale, al pari della proposta “femminile” di tanti giochi neutri. Sarà forse proprio dall’infanzia che ci portiamo dietro questa alterità, che non è differenza di cui andare orgogliose, ma una pena da scontare sottovoce, chiedendo permesso di entrare.