L’onore e la reputazione dell’uomo violento

Conoscete Patrizia Cadau?

Se ci seguite da un po’, sicuramente: ve l’abbiamo presentata come “Donna dell’anno”, in questa intervista.

Nel maggio scorso, l’ex marito di Cadau è stato condannato in primo grado al Tribunale di Oristano, per maltrattamenti e violenza in famiglia, ad una pena maggiore di quella che aveva richiesto il PM, come si legge su Gallura Oggi

Il giudice Marco Mascia del Tribunale di Oristano ha condannato un imprenditore per una violenze sulla moglie e i suoi due figli a 3 anni e 10 mesi di reclusione. L’aspetto importante non è in se il numero degli anni che dovrà scontare, ma che è stato posto un aumento di pena rispetto alla richiesta della PM Daniela Caddeo, che chiedeva una condanna più lieve, a 2 anni e 6 mesi.

A questa pena, si aggiunge anche un’ulteriore condanna precedente.

La storia di Patrizia Cadau è solo una delle troppe storie di violenza maschile contro le donne, unica, come unica è ogni donna, ma identica a tante, troppe altre: sopraffazione, potere, abuso, minacce, botte, intimidazioni, svalutazioni.

Patrizia, però non ha taciuto e, con una forza sovrumana, è sopravvissuta, come dice lei a tutto: alla violenza, certo, ma anche al “dopo” e ha fatto della sua vita e della sua storia, manifesto e testimonianza viva, efficace, potente, Dai suoi canali social, incessantemente racconta cosa sia la violenza, come riduca le donne e i loro figli, descrive la solitudine, indica le misure che lei ritiene necessarie a sostenere le vittime. Patrizia parla.

Le difficoltà sono infinite: hai paura, nessuno ti crede. Non hai strumenti. Spesso si perde il lavoro ed è frequente che tutte le proprie risorse nel tempo siano state prosciugate dal violento. Il violento si presenta come una persona perbene mentre la vittima appare quasi dissociata: la violenza reiterata, l’abuso domestico, la violenza economica sono come esplosioni radioattive potentissime, traumi che modificano il comportamento umano. Il violento non dovrà fare altro che dire: “Guardatela, è lei la pazza. E’ così strana, è cambiata, è diversa, io non capisco perché si comporta così”. Ed ha ragione, perché tutti si accorgono che la vittima ha qualcosa che non va, ma nessuno è disposto a voler credere che sia per la violenza subita. Ma per l’innato pregiudizio di isteria tipicamente femminile.  L’iter giudiziario è faticoso. I tempi della giustizia sono biblici e nel mentre le pressioni perché la vittima stia zitta sono infinite: in qualche modo tutti premono sul silenzio. Perché una donna che denuncia non denuncia solo il violento, la cui responsabilità penale è personale, ma denuncia anche tutto il sistema che permette al maltrattante di agire condotte abusanti. Tutti quelli che a vario titolo, amici, conoscenti, colleghi di lavoro, dipendenti, famigliari, istituzioni a cui ci si è rivolte per chiedere aiuto, hanno sminuito la violenza, l’hanno negata. Parliamo di violenza su una donna, ma anche sui bambini: ammettere che questa violenza esiste ma non si è voluto riconoscerla, significa ammettere una propria complicità, una connivenza e nessuno è disposto a pensarsi simile all’orco o peggio coinvolto in un crimine così schifoso. Meglio rinnegare tutto per non dover convivere col senso di colpa: meglio continuare a dire che la colpa è della vittima.

Ebbene, anche la parola di Patrizia Cadau è sovversiva, tanto sovversiva che lo Stato, quelle stesse Istituzioni che hanno riconosciuto che no, non era pazza, ma vittima, le hanno mandato un chiaro segnale di intimidazione e le hanno detto: “Stai zitta”.
Le vittime devono denunciare, dicono.
Ma poi quando denunciano, devono stare zitte.
Le testimonianze sono importanti, occorre entrare nelle scuole, dicono.
Ma quando una donna si fa testimonianza viva, parla in pubblico e nelle scuole, vincendosi, vincendo paure, vergogna, senso di colpa, le dicono di tacere.
Tutte le donne vittime di violenza che abbiamo incontrato, quelle che avevano procedimenti giudiziari in corso, quelle che avevano CTU o servizi sociali col fiato sul collo, tutte quelle che denunciano storture della giustizia, accanimento delle Istituzioni, tutte quelle che temono per la propria incolumità, devono stare zitte. Se parlano, essendo la parola delle donne eversiva, crollano le certezze, si scopre il velo, il patriarcato si disvela e la risposta dell’impianto sociale, fortemente patriarcale, maschile e maschilista, si fa feroce.
Pochi giorni fa, Patrizia Cadau è stata a Roma e, in Senato, nella sede di una delle maggiori Istituzioni, ancora una volta, invece ha parlato.
Ve la facciamo sentire qui.
E vi trascriviamo il suo discorso:
Sono davvero onorata di essere qui, ringrazio la Senatrice Cucchi per l’opportunità che dà non tanto a me, ma a una comunità di persone che normalmente stanno in silenzio e stanno in silenzio perché hanno paura, perché sono intimidite. Io sono una sopravvissuta, non so quanto sono uscita, non so quanto c’è ancora da fare (…) ed è soprattutto onorata o la donna che io sono stata un po’ di tempo fa,  per tanto tempo e che non credeva che sarebbe riuscita a liberarsi dalla sua condizione di prigioniera e di vittima di violenza.

Sono una sopravvissuta, una di quelle che il violento non è riuscito a eliminare proprio per sempre, o almeno non c’è riuscito finora, e quindi sono sopravvissuta al pacchetto completo: le botte, le intimidazioni, le minacce, la limitazione della mia libertà personale, la disgregazione della mia dignità, l’orrore quotidiano fatto di continue svalutazioni e umiliazioni.

E poi sono sopravvissuta alle denunce, ai procedimenti civili e penali, e soprattutto sono sopravvissuta alla rivittimizzazione in ogni sede, allo sciacallaggio che tocca in sorte ad ogni donna che parla di violenza.

La domanda che mi viene fatta più spesso, che vi chiedo per cortesia non fate mai a una donna che si sta liberando, sta cercando di, o è un po’ fuori, ha un piede dentro e un piede fuori… insomma non gliela fate mai questa domanda, ed è quella che comunque mi viene fatta più spesso è: “Perché non te ne sei andata prima?”

Io qui, ho stilato un po’ di risposte che negli anni mi sono abituata a dire e a ripetere

Perché avevo paura.
Perché mi vergognavo da morire.
Perché avevo due bambini piccoli, che vabbè adesso sono grandi, ma neanche troppo (…)
Perché avevo due bambini piccoli e non sapevo dove andare.
Perché in questura mi hanno detto che sembravo una moglie cornuta in cerca di vendetta.
Perché era armato fino ai denti.
Perché mi aveva portato via tutto.
Perché diceva che mi avrebbe ammazzato.
Perché nel dirmi che mi avrebbe ammazzato mi puntava una pistola alla testa.
A volte anche in bocca.
Perché diceva che avrebbe ammazzato mia figlia.
Perché diceva che avrebbe ammazzato mio figlio.
Perché diceva che li avrebbe ammazzati entrambi.
Perché la legge diceva che se fossi scappata mi avrebbero accusata di sequestro di minore.
Perché la legge diceva che i maltrattamenti dovevano essere reiterati nel tempo.
Perché la legge diceva che uno schiaffo ogni tanto non erano maltrattamenti.
Perché quando riuscivo a confidarmi mi dicevano di portare pazienza.
Perché quando vedevano i lividi dicevano di mettermi un correttore.
Perché davanti agli altri lui non alzava mai la voce.
Perché a furia di sentirmi urlare che ero una donna di merda, ho cominciato a crederlo anche io.
Perché ero sola.
Perché avevo fame.
Perché dovevo nascondere il cibo e mangiarlo di notte insieme ai miei figli altrimenti saremmo stati aggrediti.
Perché nessuno ci credeva.

Questa è una sintesi delle motivazioni per cui una donna non se ne va via prima.
“Una donna” significa che tutte le donne che vivono questa barbarie vi possono fornire lo stesso identico pacchetto di risposte, con lo stesso registro narrativo, linguistico. E’ uguale, è uguale per tutte.
Poi però me ne sono andata ma le cose non è che sono andate meglio, perché quando si denuncia bisogna essere preparate a qualcosa che non ci si aspetta: gli effetti collaterali di questo improvvisa deflagrazione della verità, che è una verità di violenza, viene visto come un oltraggio al sistema.
Intanto nessuno continua a crederti, poi bisogna difendersi nei Tribunali dall’accusa di alienazione parentale, perché i figli sono manipolati dalla mamma e non vogliono vedere il babbo per questo e poi sono arrivati i processi penali che sono infiniti. Le udienze penali sono un supplizio che gli innocenti, soprattutto se sono minori, non dovrebbero subire ma e che non meritano naturalmente.

E oggi scopro una cosa nuova: che non vengono processati solo quelli che commettono i reati di maltrattamenti, ma anche chi lo denuncia.
Sono stata rinviata a giudizio per avere raccontato la mia, la nostra storia. Una storia di violenza, di riscatto parziale se vogliamo e sono stata rinviata a giudizio perché, nel narrare la nostra storia, avrei leso la reputazione del violento, benché condannato anche con una sentenza passata in giudicato.

Mi si accusa di avere definito “violento” il violento, senza nominarlo mai di averne leso la reputazione e non perché i fatti non siano veri.
Anzi i fatti sono veri oltre ragionevole dubbio, ma avrei dovuto lavare i panni sporchi in casa e questo è un riaffiorare di quel paradigma: “STAI ZITTA!” che si propone in una nuova versione, moderna, giuridica, aggiornata e che consente di reiterare violenza agli stalker e ai maltrattanti.

Lo Stato, lo stesso Tribunale che ha condannato il violento, e per cui, almeno per un procedimento, ancora siamo in attesa di giudizio definitivo, mi trascina in Tribunale dicendo che sostanzialmente una donna qualsiasi, non può appellarsi al diritto di cronaca, non può definire all’interno del proprio racconto, il violento come violento.

Quindi una parte ci dicono di parlare, di fare rete, di sensibilizzare, di condividere, di fare rete, perché attraverso la narrazione noi attiviamo dei processi di guarigione che sono interiori, che sono collettivi…, dall’altra parte ci dicono: “Sì, ma meno, però, eh, perché se no ti portiamo in giudizio, perché se no stai ledendo l’onore del…” io manco sapevo che il violento potesse avere un onore, devo dire la verità. L’ho scoperto grazie a questa simpatica ordinanza del Tribunale di Oristano. Quindi da una parte facciamo un grandissimo lavoro per dire alle donne che devono parlare ed è necessario farlo. Voi immaginate delle donne affette da un qualche tipo di patologia che stanno vicine, stanno insieme, condividono, fanno rete, fanno sensibilizzazione su quella che è la loro patologia, un male. Immaginate che loro non lo possano fare perché altrimenti il male si offende, il male si risente. Cioè, non ne possono tanto parlare di questa malattia.

Noi viviamo quindi, noi vittime  di violenza, dico, in una condizione assurda in questo cortocircuito dove da una parte quelle poche che riescono a sopravvivere, a parlare, a farlo… sono invitate nelle Istituzioni, nelle scuole (…) Io sono invitata qui e nelle scuole a parlare, ma non potrei parlarne perché in questo racconto qualcuno si fa male.

Io ormai ho scelto la testimonianza attiva e sono consapevole di andare incontro al mio destino, che è quello di questa conseguenza, come posso dire… di danno collaterale… della testimonianza proprio, perché la testimonianza comporta un’assunzione di responsabilità, comporta il pungolare il sistema, comporta lanciare anche delle precise accuse alla società che non è ancora abbastanza vigile, alle Forze dell’Ordine che sono pronte, ma a volta anche no, alla Magistratura, alla Procura. Noi quando parliamo, generalmente diciamo sempre che qualcosa non ha funzionato non solo prima e vabbè, ma soprattutto dopo, quando noi alle Istituzioni abbiamo chiesto protezione e giustizia e giustizia sociale.

Ecco perché il mondo lì fuori è pieno di donne silenziose e silenziate, in pericolo, con i loro figli, che hanno bisogno di sapere che parlando possono guarire e possono solcare la strada verso una generazione di persone, donne e uomini, libere e liberi dalla violenza, una strada di giustizia sociale.

Abbiamo bisogno di solidarietà e fermezza nei confronti della violenza, abbiamo bisogno di una comunità che ancor prima delle Istituzioni si faccia comunità intorno alle vittime, abbiamo bisogno di una riprovazione sociale ferma dei fenomeni legati alla violenza sulle donne e sui bambini e abbiamo bisogno di incoraggiare le donne a raccontarla.

“Stai zitta” è qualcosa che non si può più tollerare: non possiamo più tollerarla, né dalla società né dalle Istituzioni.

E se leggi sono sbagliate, vorrà dire che qualcuna è destinata ad una disobbedienza civile ferma ma necessaria.
In questo contesto, il mio silenzio non lo avrà mai nessuno.
E spero anche il vostro.

Noi abbiamo scelto di dare parola, ancora una volta, a Patrizia Cadau perché nessuno avrà mai neanche il nostro silenzio.
Perché chi difende l’onore e la reputazione delle vittime, se noi stiamo in silenzio?