Gli abusi, la consapevolezza e il riscatto. Sul perché dovremmo guardare “Maid”

“Prendere a pugni un muro vicino a te è violenza emotiva. Prima di mordere, abbaiano. Prima di colpirti, colpiscono vicino a te. La prossima volta sarebbe stata la tua faccia”.

Ho dovuto stopparla diverse volte nel corso della visione delle varie puntate perché Maid è una serie impegnativa, è un nodo che ti si stringe in gola,  sono dei ricordi che pensavi di aver sepolto; questo è quello che ho provato io, ma in generale è quello che potrebbe provare ogni donna, soprattutto se almeno una volta nella vita ha  vissuto una relazione abusante.

La serie targata Netflix nasce dalla autobiografia di Stephanie Land (“Domestica. Lavoro duro, paga bassa, e la voglia di sopravvivere di una madre”) e ripercorre la vita di una giovane donna, Alex, mamma di una bambina che scappa via di casa, nel cuore della notte, portando con sé la bambina, fugge via dal suo compagno, da una relazione tossica con un giovane con problemi di alcolismo che incapace di affrontare i suoi problemi scarica la sua violenza e la sua frustrazione tra le mura domestiche.

Alex non ha un posto dove andare e nessuno a cui rivolgersi: una mamma affetta da bipolarismo, un padre assente anche questo con un passato da uomo violento e tutte le persone intorno a lei sembrano minimizzare i comportamenti di  Sean perché se non c’è il livido non c’è violenza. Quindi si rivolge ad un’assistente sociale perché lei e Maddy, la sua bambina, sono sole, senza un soldo né un posto dove poter stare.

Lo scambio tra  Alex e l’assistente sociale colpisce particolarmente perché la ragazza, pur essendo vittima di abusi, è totalmente inconsapevole di esserlo.

Mentre la donna le consiglia di rivolgersi ad un rifugio per donne vittime di violenza e sporgere denuncia verso il suo compagno, Alex, dice di non essere vittima di violenza e di non voler togliere il posto a chi ne è davvero vittima.

Ma allora le minacce, il controllo, le intimidazione cosa sono? Un falso abuso? Le chiede l’assistente sociale, mettendola in guardia che quel pugno che si scaglia contro i muri o sugli oggetti presto potrebbe prendere una mira diversa e colpire proprio lei.

Consapevolezza: questa serie ci mostra quello che spesso viene a mancare in tutti noi, nella società e soprattutto nelle vittime stesse.

Troppo spesso chi vive una relazione abusante non sa di essere in una relazione abusante e no, non bastano spot e slogan retorici come quelli che vediamo sfilare nelle giornate che precedono il 25 novembre che ti ricordano che uno schiaffo non è amore, servono dei processi di consapevolezza e di educazione sana sin dalla primissima infanzia.

Un altro elemento importante della serie è la storia di  Danielle, una ragazza che Alex ha conosciuto nel rifugio per vittime di violenza, letteralmente una sopravvissuta, una giovane che stava tentando con tutte le sue forze di smarcarsi per l’ennesima volta dalle violenze del compagno, ma che alla fine cede nuovamente perché questo è quello che fanno gli uomini violenti.

Walker Leonore nota psicoterapeuta americana e autrice di  “The Battered Woman” ipotizzò un ciclo di violenza suddiviso in fasi: la prima è quella dell’accumulo, quella in cui iniziano a verificarsi le tensioni, il malumore, la rabbia incontrollata; la seconda è quella dove avviene la violenza vera e propria: insulti, minacce, violenze fisiche e spesso sessuali . Arriva poi, puntualmente, la fase del pentimento, ovviamente finto, l’abusante prometterà che non accadrà più e da allora in poi, solitamente per un tempo non lunghissimo, arriva la quarta fase quella della luna di miele, dove l’uomo violento diventa quasi una sorta di partner perfetto per cercare di recuperare nuovamente la fiducia della vittima e irretirla nuovamente.

Ed è quello che è successo a Danielle, che da un giorno all’altro abbandona il centro per tornare da quell’uomo ed è quello che succede ad Alex stessa, la fase in cui Sean sembra volersi curare davvero, risolvere il suo problema con l’alcol, impegnarsi sul lavoro ed essere un buon padre e buon compagno.

Ma Sean è un compagno abusante e tornerà a fare quello che solitamente fanno questi uomini, tornerà alle vecchie abitudini, a isolarla, sminuirla, controllarla, minacciarla, usarle violenza, insomma.

Alex cade nel baratro, un baratro ben rappresentato nella serie come un profondissimo pozzo. Tocca il fondo e da quel fondo si può solo risalire.

Scappa di nuovo, questa volta aiutata da una donna che apparentemente con lei non ha nulla in comune, è esattamente il suo opposto, è una delle sue clienti, una delle donne per cui pulisce casa, ma non è l’unica, perché una delle tante note positive di questa serie è l’alleanza di genere, il sostegno che spesso si viene a creare tra donne diversissime per età, cultura, vissuto, ma la violenza come ben sappiamo è un fenomeno trasversale e può colpire tutte, indistintamente e da quelle esperienze  e dalla solitudine che i rapporti abusanti e tossici ti lasciano può capitare di trovare delle persone con cui condividere questo peso, con cui solidarizzare.

Maid ci mostra un altro elemento di cui ancora poco si discute quando si affronta la violenza di genere che è quella della violenza economica.

Alex preferisce scappare di notte e dormire in stazione che continuare a schivare colpi e raccogliere vetri tra i capelli della sua bambina, preferisce lavare un’infinità di bagni sporchi, di piastrelle, di case invase da immondizia pur di mettere in salvo sé e la sua bambina.

Un elemento importante è il conteggio dei soldi che Alex ha in tasca e che appare sullo schermo che inesorabilmente diminuisce sempre più. Alex è una ragazza sulla soglia della povertà come tante altre donne che non hanno un lavoro e dipendono anche economicamente dal proprio aguzzino.

Il lavoro quindi come riscatto sociale, come ancora di salvezza in situazioni in cui la vittima non denuncia o non scappa dal violento perché non saprebbe dove andare e cosa fare. Ma anche l’assistenza, una rete di centri antiviolenza, di luoghi dove potersi mettere in salvo, di psicolog*, assistenti sociali, di maggiore tutela insomma, elementi che troppo spesso vengono a mancare.

 

Ma quello che Alex desidera più di tutto è salvare sua figlia dal suo stesso destino, da un giorno all’altro tramite dei ricordi che riemergono all’improvviso, scopre che sua mamma come lei è stata vittima di violenza domestica, che sin da bambina ha assistito alla violenza, all’ira di suo padre, tanto da nascondersi terrorizzata in un armadietto della cucina. Alex scopre che Maddy fa esattamente la stessa cosa quando Sean urla e inveisce contro di lei e forse è questa la spinta che la fa riemergere da quel pozzo, la scintilla che la fa reagire da quella depressione in cui era sprofondata.

A volte sembra che la violenza sia il destino scritto di troppe donne, che se la portino dietro come una zavorra di relazione in relazione, ma Maid ci fa riflettere su un altro dettaglio importante, che i bambini e le bambine, seppur non subiscano le violenze in prima persona ma ne siano spettatori e spettatrici, in qualche modo la violenza la subiscano normalizzandola, quasi come se fosse un naturale aspetto di un rapporto di coppia, un destino inesorabile.

Il finale è positivo e non solo perché Alex evita a Maddy il suo stesso destino ma lei stessa si smarca da quello di sua mamma Paula che non ha raggiunto il grado di consapevolezza di sua figlia e colleziona relazioni tossiche, una dietro l’altra, rimanendone vittima inconsapevole e inerme.

La visione di Maid è stata dolorosa, ha rappresentato per me un tuffo nel passato, ho rivissuto diverse sensazioni, le urla, gli oggetti scagliati, i pugni di Sean verso il muro erano gli stessi che ho visto per troppo tempo, la costante paura che uno di quelli un giorno colpisse me, il terrore di rimanere sola con quella persona, la tensione e il continuo evitare qualsiasi tipo di discussione per evitare che la sua ira  si accendesse.

La visione di Maid mi ha fatto riflettere inevitabilmente su questa giornata, sulla violenza psicologica di cui ancora troppo poco si dibatte perché se non c’è un volto tumefatto non c’è violenza, su ciò che io ho vissuto in prima persona, sulle relazioni tossiche che tante donne che conosco hanno mandato giù spesso inconsapevolmente, della rappresentazione fuorviante che si fa della violenza, del victim blaming, del linguaggio giornalistico, dei discorsi istituzionali e non zeppi di retorica, di questi slogan che vengono veicolati e rimbalzano di bacheca in bacheca il 25 novembre spesso finendo su quelle delle stesse persone che ci hanno fatto del male, ignari (ma troppo spesso no) di quello che hanno provocato.

La mancata consapevolezza, insomma, una delle tante cose su cui si dovrebbe ancora e tanto lavorare.