A proposito di donne dell’anno: Patrizia Cadau, il coraggio e l’esempio

Questo post del primo dell’anno deve girare su tutti i diari, le bacheche, i social, i telefoni. Deve andare di bocca in bocca, di lettura in lettura. E non perché l’abbiamo scritto noi, ma perché deve capitare sotto gli occhi di chi subisce quello che Patrizia Cadau, consigliera comunale di Oristano, leonessa sarda, ha subito e sta subendo ancora oggi.

Deve capitare sotto gli occhi di giudici, avvocati, assistenti sociali, CTU, perché, come dice Patrizia stessa:

“l’impegno civico e il dovere morale della testimonianza che ho deciso di portare avanti per me e per quelle che ancora non hanno voce” deve mostrare che i lividi che ha pubblicato sui social per mostrare a tutti di cosa sono capaci gli uomini violenti sono diventati altro.

Patrizia Cadau è una donna vittima di violenza domestica: dal 2012 al 2017 ha subito ripetute aggressioni psicologiche e fisiche dall’ex marito. Ha trovato poi il coraggio per denunciare e sta proseguendo il cammino legale nato dalla sua querela. (QUI per chi vuole approfondire)

Le storie di violenza domestica restano spesso nascoste, per tanti motivi, sono i cosiddetti “panni sporchi” che ancora si lavano in famiglia, sono il fallimento della società e della politica, sono la miseria svelata di troppi uomini misogini e possessivi, crudeli e violenti. Sono dolorose, troppo, ad esse ci si accosta a fatica, si preferisce fingere che non siano vere, che non siano diffuse, che siano eccezioni dovute a problemi particolari di quella coppia…

Patrizia Cadau ha scelto, invece, la testimonianza, il racconto e noi abbiamo deciso di intervistarla perché le sue narrazioni, potenti, vivide sono un vessillo di dignità e coraggio e abbiamo deciso di porgerla a chi ci legge come augurio per il nuovo anno e come coda della nostra gallery sui social delle “donne dell’anno”. Patrizia Cadau chiude e apre un anno di dignità e coraggio femminili.

D: Quali sono le emozioni dominanti quando si vive con un partner violento, a parte, ovviamente, la paura?

R: Il senso di colpa e la vergogna. Della violenza ci si sente colpevoli, perché spesso siamo prive degli strumenti per arginarla, ma anche perché condizionamenti culturali tossici e millenari accusano le vittime di essersi andate a cercare la violenza con le loro condotte discutibili. Discutibili secondo la narrazione dominante. Se un uomo è violento con la sua compagna, le colpe non possono essere che di lei per averlo esasperato o per non aver aderito a modelli “virtuosi”di comportamento: l’essere accudente senza riserve, contenuta, riservata, silenziosa, senza troppe pretese, possibilmente muta. E poi la vergogna: se la colpa è delle vittima, ci si vergogna da morire di essere in quella condizione sentendosi inermi e incapaci di fuggire alla crudeltà del violento che è riuscito ad annullare le difese della vittima, pianificandone lucidamente l’annientamento.

D: C’erano dei gesti o delle abitudini di tuo marito che più di tutte ti ferivano o umiliavano?

R: La brutalizzazione del linguaggio: le parole diventano una planimetria lugubre di insulti, minacce, epiteti, volgarità continue e reiterate. Il violento non ti chiama più nemmeno col tuo nome ma sempre con un dispregiaivo e sempre con urla che non hanno nulla di umano. Il tuo nome viene associato a quello di un animale da cortile e diventi in sequenza una cagna, una capra, un’oca. A furia di sentirti dire che sei una donna di merda, una puttana, che la colpa è tua, che sei una bestia, finisci anche per crederci. Il linguaggio in tal senso diventa la prima e più feroce arma per distruggere la propria resistenza. Comincia con svalutazioni di poco conto per diventare un gioco al massacro: è la violenza psicologica, quella che non lascia lividi, ma che ti porta ad una specie di morte interiore senza nemmeno lasciare traccia. E poi l’abitudine di puntarmi le armi alla testa. Per gioco, prima. Poi, dopo i primi tentativi di ribellione, per minacciarmi di morte. O per minacciare di morte i miei bambini. Una volta con la canna premuta in bocca: il messaggio era chiarissimo. Devi stare zitta.

D: Patrizia, in tutte le storie di violenza domestica, le donne sopravvivono grazie ad una enorme quantità di coraggio. Dapprima il coraggio di riconoscere con se stesse di essere vittime, poi il coraggio di ammetterlo con altri, chiedendo aiuto. E poi il coraggio del “dopo”, di cui però parleremo meglio più avanti. C’è stato un episodio/chiave che ti ha dato prima il coraggio di riconoscerti vittima e poi quello per chiedere aiuto?

R: Ad un certo punto mia figlia mi tirò su da terra, dopo essere stata colpita. Mi fece una foto. Mi disse: “Mamma, devi aiutarci a salvarci”. Quello è stato il momento del non ritorno. Fino a quel momento avevo creduto di poter nascondere allinfinito, di proteggere i miei figli anche solo negando la brutalità del padre. La mia preoccupazione più grande era quella di cercare di contenere la violenza per evitare ai miei bambini la sofferenza di essere figli di un mostro. Non potevo sopportare di non essere in grado di proteggerli. Ma sapevo anche che la legge non mi avrebbe aiutata. Mi ero rivolta già due volte in questura, ed ero stata allontanata, quasi senza neppure essere sentita, con l’accusa di essere una moglie cornuta in cerca di vendetta; non è che non avessi proprio cercato aiuto. Però, ecco, quell’episodio, quella ricerca esplicita di aiuto di mia figlia mi diede la consapevolezza che non avrei più dovuto faticare per nascondere una verità dolorosa ai miei figli: quel padre era un orco, lo sapevano anche loro e non era colpa nostra.

D: Parliamo di quello che è successo subito dopo la tua denuncia. Lui era ancora in casa? Come, con che tempi sei riuscita a separarti fisicamente da lui? Le sue azioni appena dopo la denuncia si sono inasprite? Racconta…

R: La denuncia è arrivata dopo la separazione e un ulteriore tempo di violenza. minacce e intimidazioni a me e ai figli. Avevo deciso per una separazione consensuale in cui gli avevo concesso tutto, dall’affidamento condiviso all’intestazione del mio patrimonio. Tutto pur di essere libera. Non servì a nulla: eravamo costantemete minacciati e intimiditi, e i miei figli costretti ad incontrarlo. Nel frattempo, mi rivolsi ad un centro antiviolenza, e più tardi di nuovo alla Polizia.

Nonostante la querela per maltrattamenti, i miei figli furono comunque obbligati a vedere il padre, benché ne avessero paura: il maltrattante, insieme ai genitori, promosse anche due cause civili contro di me, con l’accusa di essere una madre alienante, ostativa, che impediva il rapporto dei miei figli con loro. In entrambi i procedimenti furono sentiti i miei figli e altri testimoni, e le richieste dei ricorrenti furono rigettate, dando ragione a me e rimandando al processo penale le competenze per un quadro di abusi che si era delineato in quella sede. Nel frattempo il violento è stato rinviato a giudizio due volte per maltrattamenti, violenza, lesioni, aggravati dall’uso delle armi. I processi sono lunghi e ho capito che bisogna avere pazienza.

D: Le donne sono bombardate da messaggi che le invitano a denunciare e molte, ingenuamente, credono che basti chiedere aiuto per sentirsi protette e sicure. Non è così, in realtà. La strada è lunghissima e in salita. Quali sono stati i momenti più difficili dell’iter giudiziario (ancora in corso)? Quali pressioni, fatichem difficoltà si trova di fronte una madre che fugge dalle violenze del partner?

R: Le difficoltà sono infinite: hai paura, nessuno ti crede. Non hai strumenti. Spesso si perde il lavoro ed è frequente che tutte le proprie risorse nel tempo siano state prosciugate dal violento. Il violento si presenta come una persona perbene mentre la vittima appare quasi dissociata: la violenza reiterata, l’abuso domestico, la violenza economica sono come esplosioni radioattive potentissime, traumi che modificano il comportamento umano. Il violento non dovrà fare altro che dire: “Guardatela, è lei la pazza. E’ così strana, è cambiata, è diversa, io non capisco perché si comporta così”. Ed ha ragione, perché tutti si accorgono che la vittima ha qualcosa che non va, ma nessuno è disposto a voler credere che sia per la violenza subita. Ma per l’innato pregiudizio di isteria tipicamente femminile.  L’iter giudiziario è faticoso. I tempi della giustizia sono biblici e nel mentre le pressioni perché la vittima stia zitta sono infinite: in qualche modo tutti premono sul silenzio. Perché una donna che denuncia non denuncia solo il violento, la cui responsabilità penale è personale, ma denuncia anche tutto il sistema che permette al maltrattante di agire condotte abusanti. Tutti quelli che a vario titolo, amici, conoscenti, colleghi di lavoro, dipendenti, famigliari, istituzioni a cui ci si è rivolte per chiedere aiuto, hanno sminuito la violenza, l’hanno negata. Parliamo di violenza su una donna, ma anche sui bambini: ammettere che questa violenza esiste ma non si è voluto riconoscerla, significa ammettere una propria complicità, una connivenza e nessuno è disposto a pensarsi simile all’orco o peggio coinvolto in un crimine così schifoso. Meglio rinnegare tutto per non dover convivere col senso di colpa: meglio continuare a dire che la colpa è della vittima.

D: Per concludere: c’è qualcosa che vorresti dire a chi sta subendo quanto hai subito/stai subendo tu? E quali sono, secondo te, le azioni concrete che la politica, la giustizia, le istituzioni dovrebbero mettere in atto per migliorare il sistema di tutela delle donne, delle madri e dei minori vittime di violenza domestica?

R: Intanto io credo che prima che con la politica, la violenza si debba contrastare con una rivoluzione nelle nostre comuinità: una vittima ha bisogno di essere creduta, ha bisogno di sapere che intorno a lei ci sono persone capaci di riconoscerle il torto subito. Perché gli abusi domestici non sono una ferita “privata” ma “pubblica”. La violenza in famiglia è un trauma per la comunità intera. Le vittime sono la comunità. I bambini che hanno subito maltrattamenti e violenza sono il futuro della comunità. E’ necessario garantire loro un percorso di guarigione basato sul rinforzo della fiducia nell’umano. E questo può farlo una comunità attenta, capace di stringersi intorno alle vittime senza pregiudizi. Non ci può essere dubbio sulla parte in cui stare. Se ci sono dubbi, allora bisogna guardarsi dentro e chiedersi perché si è più affini a chi esercita violenza rispetto a chi la subisce.

Alle donne che vivono quello che vivo io: date parola a quello che vi succede e cominciate a tenere memoria. Annotate tutto, mandate messaggi alle persone di cui vi fidate, cominciate a raccontare tutto come in un diario. Registrate tutto ciò che è possibile. Non pensate di cambiare la situazione con la pazienza e il silenzio perché il violento rimane tale e quella situazione non cambierà. Non è colpa vostra, ripetetelo allo sfinimento. La colpa della violenza è del violento. L’unica cosa che spaventa il violento e il sistema è la denuncia, il potere della parola. E non vi rimane altro che quella, nonostante le conseguenze. Ma almeno potrete dire a voi stesse e ai vostri figli: “Io ci ho provato”. E sono certa che se ci provassimo tutte, tutte avremmo certamente giustizia.

L’intervista finisce qui. Nel ringraziare tanto Patrizia, non resta che augurarci che le sue potentissime parole arrivino dove debbono giungere a mettere seme. Nel cuore delle vittime, in primis. Ma lei usa parole pesanti anche verso chi foraggia la violenza. Che arrivino anche a loro: comunità, amici, famigliari, conoscenti, avvocati, giudici, forze dell’ordine e professionisti che a vario titolo quotidianamente incontrano le donne e i loro bambini.

Buon 2022 di dignità e coraggio a tutte e tutti!