Genere, islam e comunità immigrate: l’informazione che deforma

L’estate 2016 ci sta lasciando piano piano, con il suo corollario di tormentoni, polemiche, maschilismi vecchi e nuovi. Dalle atlete egiziane di beach-volley a Rio, al trito e ritrito repubblicanismo francese che vieta cose – spesso in barba ai diritti umani elementari che tanto si vanta di aver inventato- sembra che le donne musulmane siano ciclicamente sotto i riflettori. Su di loro e attraverso i loro corpi si sta svolgendo una battaglia tra supremazie maschili, che possono vantare di un buon numero di sostenitrici alla “causa femminile”, riciclata dalle strategie politiche. Metti il velo, togli il velo, liberati, nasconditi, fatti vedere, seduci, non fiatare, parla, non parlare: un buon cocktail di contraddizioni che queste nostre amiche e sorelle devono affrontare, spesso da sole, tra sguardi trasudanti ostilità e condiscendenza.

Come se non bastasse, la tensione che negli ultimi regna in tutta Europa, tra un terrorismo di matrice religiosa sempre meno circoscrivibile e la cosiddetta “crisi” dei rifugiati, sta pericolosamente abbassando i requisiti di correttezza dell’informazione. La molteplicità dei canali di informazione, amplificata dall’esplosione della rete una decina di anni fa, rende inoltre sempre più difficile l’acquisizione di buone prassi giornalistiche: un contesto sempre meno netto dove i media tradizionali subiscono il contraccolpo del calo delle vendite e reagiscono adottando dubbie strategie acchiappaclick.

 

L’articolo

Deve essere quello che è successo tra la stesura e la pubblicazione di questo articolo del Corriere della Sera, del 12 febbraio 2016, dove il titolo descrive una visione parziale rispetto al contenuto del testo:

corriere.

Il fatto che l’articolo sia datato non costituisce un esercizio inutile: la sua analisi può anzi permettere  di fare il punto su un tipo di narrazione mediatica sulle comunità musulmane immigrate che considero fuorviante e sbagliata. Il testo e il suo titolo, proprio perché il contenuto si colloca al di fuori delle suddette polemiche estive, rientrano appunto nello stile di una certa informazione che si è banalizzata nel corso degli anni. Vediamo perché.

Innanzitutto, il titolo fa volutamente riferimento all’islam e alle fantomatiche “ragazze islamiche”: già di per sé, l’aggettivo islamico usato a casaccio come sostantivo rileva del pressapochismo del titolista, che oso sperare non sia anche l’autore dell’articolo. Ma è chiaro, ai miei occhi, che tale titolo rientra oggi nelle strategie comuni di marketing delle testate online: confezionare frasi a effetto, spesso soprassedendo sul contenuto, in modo da ottenere un numero di visualizzazioni e condivisioni potenzialmente più elevato. Che il marketing sia riuscito a diventare più rilevante del corretto italiano e della corretta informazione è già un fatto grave: i quotidiani spudoratamente squadristi come Il Giornale o Libero, o ancora l’opinion leader della destra xenofoba Salvini, ricorrono a questa retorica consapevolmente, al fine di alimentare la confusione e la paura. L’adozione di questa confusione tra termini da parte di altre testate mostra invece molto bene come una certa destra abbia aperto le porte all’imprecisione. Ma andiamo oltre.

Il contenuto dell’articolo ci parla di qualcosa di meno determinista rispetto al titolo. Partendo da statistiche rinvenute sul Portale Integrazione Migranti e dai dati incrociati del MIUR e del Ministero del Lavoro, l’autore ci dice che:

Andare a scuola in Italia per molte ragazzine delle comunità islamiche non è affatto un diritto acquisito. I dati del Miur su frequenze e abbandoni scolastici mostrano che egiziane e senegalesi, bangladesi e pakistane alla soglia dell’adolescenza vengono ritirate (troppo) più spesso dei coetanei maschi, rinchiuse in casa, instradate su quel percorso che, statisticamente, ne trasforma poco dopo in Neet sette su dieci: giovani donne tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano… […] Dei nove gruppi non comunitari a maggiore dispersione scolastica (quelli cioè nei quali è più basso il rapporto percentuale tra iscritti a scuola e minori censiti nella comunità) sei provengono da Paesi di religione islamica: Egitto, Bangladesh, Senegal, Pakistan, Tunisia e Marocco.”

Per poi aggiungere, nella frase direttamente seguente (i grassetti sono miei):

 “Ma, attenzione, i tre gruppi non musulmani di questa classifica alla rovescia — Sri Lanka, Cina e India — pur avendo bassi numeri di presenza tra i banchi, mantengono sostanzialmente invariato il rapporto tra maschi e femmine — circa uno a uno [..] così come accade ai due gruppi provenienti da Paesi musulmani ritenuti più permeabili alle istanze occidentali, Marocco e Tunisia.

 Ammesso e non concesso che si possa condividere una relazione causale così binaria – che vede nel musulmano che manda le figlie a scuola il risultato della permeabilità all’Occidente- mi pare evidente che il titolo e l’introduzione dell’articolo generalizzano all’intera aera musulmana una tendenza tutt’altro che uniforme tra le diverse comunità. Per non parlare del fatto che il titolo pone l’etichetta “islamica” su comunità musulmane che, nonostante la religione comune, provengono da società profondamente diverse in molti aspetti della vita famigliare e sociale. Nonché da società che presentano grandi disparità tra una classe sociale e l’altra: come dice Izzedin Elzir, presidente dell’U.co.i.i (Unione delle comunità islamiche d’Italia), nello stesso articolo, in Egitto c’è Il Cairo e poi ci sono 90 milioni di persone che dormono nei cimiteri. Stessa cosa vale per il Marocco, dove sebbene in pochi anni le politiche siano riuscite a livellare il gap di genere nella scolarizzazione delle bambine, le profonde fratture tra campagne e città, l’impermeabilità di certi luoghi poco accessibili allo Stato, o la differenze profonde tra classi sociali poverissime e ricchissime che coesistono in una stessa città favoriscono uno sviluppo sociale a due velocità: tra una popolazione femminile (ricca) sempre più istruita e un’altra semi-analfabeta. Gli elementi che migrano verso l’Europa rappresentano probabilmente un microcosmo rappresentativo ma ristretto di queste diversissime realtà sociali, che si reorganizzano in situazione di migrazione creando un insieme comunitario eterogeneo ma solidale. Perché la migrazione rappresenta essa stessa un percorso di transizione e redifinizione degli elementi che “fanno” comunità. Lo dice bene, sempre nell’articolo, il sociologo e già presidente della comunità senegalese Ali Baba Faye, quando sottolinea che il problema dell’abbandono scolastico in Italia riguarda le comunità immigrate in Italia e non per forza il loro paese d’origine, come il Senegal dove, a suo dire, la legge sulla parità funziona.

Eppure la co-presenza esplicita di diversi livelli di analisi non impedisce all’autore di scrivere che “[il fatto che] nell’Islam la questione femminile sia aperta drammaticamente è insomma chiaro sin dalle nostre aule”.

 

Le discriminazioni sulle “altre” e la produzione di determinismi culturali.

Ma l’abbandono scolastico precoce delle bambine è davvero un problema musulmano, come l’articolo suggerisce apertamente? Sia chiaro: la situazione delle donne e delle bambine in tanti [troppi] Paesi di confessione musulmana non ha nulla di idilliaco. Le discriminazioni con le quali esse convivono e lottano nel mondo sono ben reali, nate e tramandate da tradizioni patriarcali ancestrali che si rinnovano e riadattano ai cambiamenti dati dalla religione e dalla globalizzazione. Sebbene nell’islam esistano interpretazioni e diatribe mai concluse sulla posizione delle donne nella società, ciò non può assolutamente essere ridotto alla religione come “essenza” o “matrice” della discriminazione di genere. Ci sono per esempio donne molto istruite, ovunque, anche nelle società musulmane, che subiscono però violenze e discriminazioni di ogni tipo. Perché la discriminazione di genere è multiforme, atea, cristiana, musulmana, induista, buddista, agnostica: la nostra storia e la storia globale ci mostrano perfettamente la creatività dell’uomo nell’oppressione della donna, in qualsiasi salsa idealogica. La scolarizzazione delle bambine non è mai stata un “diritto acquisito”, mai. Come per la maggior parte dei diritti delle donne, ogni finestra di libertà è stata conquistata a suon di lotte e si è spesso rivelata una finestra che dava su una stanza dalle finestre chiuse, ancora da abbattere.

 

In generale, la scolarizzazione delle bambine è ancora un problema grave in diverse parti del mondo, sia in termini di accesso che di qualità dell’insegnamento. Secondo l’Unicef circa 120 milioni di bambini si vedono negare il diritto all’istruzione, più della metà di questi sono bambine. Le comunità immigrate italiane sollevano oggi una problematicità che pensavamo conclusa ma che, invece, è troppo diffusa al di fuori delle nostre isole felici. I dati riportati ci mettono davanti a una sfida, che non deve essere letta come scontro di civiltà ma come l’incontro con realtà che per lungo tempo, complici il colonialismo, la povertà, l’instabilità politica, lo sviluppo a marce alternate e le guerre, non hanno potuto godere delle basi necessarie per permettersi di pensare a una società più equa. La sfida italiana sarà di captare e tentare di rispondere ai problemi interni e esterni che attraversano queste comunità quando si tratta di scolarizzare le bambine: quali paure, quali intralci si pongono tra le comunità e la scuola? Non tutto può essere letto come sintomo di “arretratezza” o di tratti culturali “essenzialmente” legati a una religione in particolare. La religione comune tra queste comunità immigrate deve essere UNO dei fattori di analisi del fenomeno di abbandono ma non può diventare LA spiegazione del fenomeno, perché in questo modo tutto quelle che si ottiene è un relativismo culturale di accatto, che pretende di occuparsi delle discriminazioni sulle donne di “altri” finendo per parlare di loro come pezzi di mobilio di una fantomatica cultura totalmente monolitica e uniforme. Tale modo di occuparsi delle discriminazioni di genere ha per effetto di sottrarle all’analisi storico-antropologica e femminista fornendo risposte semplici a problematiche estremamente complesse. Una tendenza sempre più diffusa nel mondo dell’informazione e che finisce per rendere invisibili le stesse questioni di genere su cui crede di accendere i riflettori.

 

Post- scriptum sul lavoro, le Neet e la popolazione inattiva femminile:

Secondo l’articolo, l’abbandono scolastico porta la maggior parte delle ragazze a entrare a far parte della categoria Neet (not in employment, education and training) dai 15 anni in su. Visto che l’articolo in questione non cita da quali documenti ha ottenuto le sue fonti, userò i dati citati nel 2014 dal Redattore Sociale, che indica come, secondo il IV rapporto annuale 2014 “Gli immigrati nel mercato del lavoro in Italia”, già nel 2013 il fenomeno dei/lle Neet era in largo aumento tra la popolazione femminile immigrata, sia comunitaria che extra-comunitaria:

 “ Il fenomeno coinvolge in particolare le ragazze, sia nel caso dei cittadini Ue che extra Ue, al contrario di quello che accade tra i ragazzi italiani. Le donne Neet sono infatti il 64,3 per centro tra i comunitari e il 67,3 per cento tra gli extra Ue, mentre tra i ragazzi italiani la componente femminile interessata dal fenomeno si ferma al 49,7 per cento

Allo stesso modo il V apporto annuale sui migranti nel mercato del lavoro del 2015 indica che tra gli inattivi del 2014 “la componente femminile pesa circa il 70% tra gli extracomunitari e poco meno del 75% tra i comunitari.” (p.8). A leggere la sezione sulla popolazione femminile inattiva (.36) , appare chiaro che le motivazioni dell’inoccupazione variano da comunità a comunità, con picchi di inattività tra le giovani donne provenienti da Sri Lanka, Banglaesh, Ucraina, Albania. Tra le srilankesi, bengalesi e egiziane, il motivo indicato più di frequente è che si devono prendere cura di figli e/o persone non autosufficienti, come anche molte tunisine, indiane e marocchine. Ma da questi dati, come dai dati globali sulla popolazione femminile inattiva 15-64 anni (italiane 63%, UE 74,6%, extra-UE 69%), appare evidente che l’inoccupazione femminile non è unicamente un problema che riguarda l’islam, né le cittadine extra-comunitarie. Invero, il tasso di inattività costituisce un problema globale per la popolazione femminile italiana e straniera. Più che cercare spiegazioni nei costumi e nelle tradizioni delle popolazioni straniere, un’informazione corretta dovrebbe chiedersi come mai, nella crisi generale del lavoro, sono sempre le donne le prime a pagare il prezzo.

Una risposta a “Genere, islam e comunità immigrate: l’informazione che deforma”

  1. Avevo letto l’articolo del Corriere “incriminato” e mi ero posta alcune domande che questa pubblicazione in parte soddisfa. Concordo che in problema di genere sia trasversale e osservo che in fondo la percentuale tra Ragazze Italiane, UE ed Extra UE non è così differente. Quello che mi preoccupa, non penso si tratti di pregiudizio, è il rischio di invisibilità in cui rischiano di cadere le ragazze di cultura islamica, sacrificate alle ragioni della famiglia anche per questioni culturali. Tra di loro ci sono anche le ragazze Rom, condannate ad una doppia emarginazione di cui sappiamo davvero pochissimo. Siamo molto, troppo distanti dal colmare il gender gap in situazioni di tranquillità sociale ed economica, penso come questo possa pesare ulteriormente quando esigenze di varia necessità, religiosa, economica e culturale comporti rinunce da parte dei membri più deboli del sistema familiare, penso anche come il nostro welfare sia culturalmente orientato a emarginare piuttosto che integrare le donne, siano esse di qualsiasi nazionalità o religione.

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