Se dovessi sintetizzare quest’estate in due parole, non avrei dubbi: body shaming.
Abbiamo iniziato la stagione estiva con la questione “shorts”. Immagini di donne normalissime, ma considerate sbagliate dai media, hanno accompagnato le nostre vacanze a suon di insulti gratuiti. Non paghi, abbiamo accostato il problema delle donne troppo scoperte, a quello delle donne troppo coperte. L’attenzione si è, quindi, spostata sul burkini.
E noi qui a prendere appunti sulle direttive morali ed estetiche che ci vorrebbero imporre, più confuse e arrabbiate che mai.
L’estate sta finendo, ma la gogna pubblica non ne vuole sentire di andare in pausa invernale. In mancanza forse di altri argomenti, prende di mira la figlia di Beyoncé, ovvero Blue Ivy, colpevole di essere troppo brutta e di perdere nettamente il confronto con la madre.
A scatenare il putiferio, è stata una foto pubblicata dalla cantante in occasione degli Mtv VMA 2016. In poche ore, il web si è riempito di commenti pesanti e veramente offensivi.
Ci sono tante cose che proprio non mi vanno giù di questa vicenda, ma una su tutte è che la persona in questione ha solo quattro anni. Una cosa che dovrebbe fare riflettere, testimone del fatto che una donna viene giudicata per il proprio aspetto fisico fin dalla tenera età. Non solo, viene colpevolizzata se non rispetta i canoni estetici stabiliti dalla società, scaturendo una cattiveria irrazionale.
Un giudizio che pesa doppiamente sulle madri, alle quali si richiede non solo di essere belle e giovani per sempre, ma anche di generare una prole dall’aspetto gradevole e in qualche modo degna.
Giudicare i/le figli/e delle donne famose, inoltre, sembra essere il nuovo passatempo degli internauti. Prima di Beyoncé, anche Belen Rodriguez e Bianca Balti hanno subito l’onta per non aver partorito una creatura alla loro altezza.
Non vengono risparmiate neanche Michelle Hunziker e sua figlia, Aurora Ramazzotti, i cui sederi sono stati confrontati da un giornale, decretatando che quello della madre è più tonico. Il tutto contornato da un servizio fotografico, figlio di un certo voyeurismo duro a morire ai danni del corpo femminile.
Nel caso di Blue Ivy, però, si assiste a una sorta di accanimento, che sa di razzismo. Nel 2014, infatti, una donna ha indetto una petizione per chiedere a Beyoncé di curarle di più i capelli, poiché al naturale si presentavano troppo ricci e ribelli. Petizione che ha raccolto oltre 3000 firme!
Quella dei “capelli afro” è una questione che viene usata spesso per sminuire e discriminare le persone di origini africane, in particolare il genere femminile. Lo racconta bene Elisabeth Avecedo con il suo toccante poema “Hair”, in cui parla dell’ossessione delle donne africane per la stiratura dei propri capelli, al punto da diventare una tradizione tramandata da madre in figlia.
Per molto tempo, infatti, i “capelli da bianca” sono stati uno standard di bellezza nelle comunità afroamericane. Finché negli anni ’60, dal movimento femminista americano è nato il Black feminism con il suo “natural hair movement”, grazie al quale i ricci sono diventati finalmente un orgoglio. Orgoglio che prova anche Evelyne Afaawua, di origini ghanesi. Proprio per questo, ha forgiato la parola Nappy, ovvero naturally happy, e ha fondato un sito, http://www.nappytalia.it, in cui ŕaccoglie consigli e idee per curare i capelli afro. Ma non solo, il sito porta con sé messaggi importanti, come quello dell’autoaccettazione, e raccoglie centinaia di storie di giovan* di origine africane.
Perché, in fondo, la questione è ancora problematica. Giusto qualche settimana fa, il preside di una scuola di Pretoria (Sudafrica) aveva imposto alle alunne di stirare i propri capelli, per motivi di igiene. Un gesto razzista che non è passato inosservato e ha scatenato la reazione di tutt* gli/le studenti/tesse, che hanno indossato pettinature afro come segno di protesta. Inoltre, è stata lanciata una petizione online e l’argomento è diventato uno dei trend più discussi sui social, con l’hashtag #StopRacismAtPretoriaGirlsHigh. Qualche giorno dopo, il ministro provinciale per l’Educazione, Panyaza Lesufi, ha costretto il preside a sospendere il divieto e a rivedere parte del codice scolastico. Decretando, così, una vittoria importante in un paese ancora diviso in base al colore della pelle.
Il tema dei capelli è ricorrente nell’ultimo album di Beyoncé, “Lemonade”. Nella canzone “Formation” difende la figlia, affermando “I like my baby hair, with baby hair and afros”. Mentre in “Sorry”, parla di una “Becky with good hair”, scatenando diverse polemiche. Il termine Becky riveste più significati (http://onlineslangdictionary.com/meaning-definition-of/becky), alcuni con una connotazione sessuale anche molto forte. Sarebbe, soprattutto, un modo per identificare un certo tipo di ragazza bianca, cosa che ha portato la rapper Iggy Azalea ad accusare Beyoncé di razzismo. (http://consequenceofsound.net/…/iggy-azalea-thinks-beyonce…/) In realtà, il termine Becky sembra derivare dalla canzone “Baby got back” di Sir Mix-a-lot, nel cui video si vedono due ragazze commentare una donna nera, esclamando “Oh, my God, Becky, look at her butt”.
Il termine “good hair”, invece, nasce ai tempi della schiavitù, dove gli schiavi con i capelli lisci venivano giudicati più presentabili e per questo venivano assegnati ai lavori di casa, lasciando i campi agli schiavi di origine africana, come ben spiegato nel libro “Hair Story” di Byrd e Tharps. Questa dicotomia la si trova anche nel film di Spike Lee “Good and Bad Hair” del 1988.
Il razzismo nei confronti della piccola Blue Ivy non si ferma ai suoi capelli, viene testimoniato anche da alcuni commenti che l’apostrofano come “negra”, la colpevolizzano per i suoi lineamenti marcati e la paragonano a una scimmia. Poco importa se la madre celebra discorsi contro le discriminazioni, abbraccia cause importanti come #Blacklivesmatter e ha dichiarato di aver avuto problemi all’inizio della sua carriera per il suo fisico curvy, mal visto dal mondo della moda.
“Ma cosa stiamo insegnando a questa bambina?” tuona la stilista Jia Wertz, ragionevolmente. Blue Ivy crescerà con il peso di queste critiche, che, nolente o volente, l’accompagneranno per tutta la sua vita. Lo spiega bene il dottor Emidio Tribulato:
“Quando un/a bambin* è eccessivamente ripres* per i suoi limiti negli apprendimenti, per il suo aspetto esteriore, o per il suo modo di comportarsi, avrà necessariamente difficoltà a vedere se stesso nella giusta prospettiva, per cui è facile che la disistima porti ad ansia, insicurezza, chiusura, timidezza e tristezza la quale può andare fino a una grave depressione.”
Quello che stupisce, soprattutto, è che una consistente parte delle critiche arriva dal mondo femminile. Proprio quello che, invece, dovrebbe essere più sensibile a certi argomenti. Ma è proprio questa sensibilità a scatenare determinate reazioni.
Sophia Nelson, autrice del libro “The Woman Code”, afferma:
“From the time we’re little girls, we’re taught to compete. I need to be prettier, taller, smarter, my hair needs to be straighter, curlier, whatever it is. I need to get the better looking guy.”
Le donne sono così abituate ad essere giudicate e considerate per il loro aspetto fisico, da sottoporre lo stesso trattamento alle altre, sfociando così in un atteggiamento passivo – aggressivo.
La psicologa Lynn Margolies sostiene che, alla base di questo meccanismo, vi è una diversa percezione della competizione nelle donne, vissuta come una caratteristica maschile e quindi sbagliata in loro.
“Their natural competitive spirit cannot be shared openly, happily, or even jokingly with other women. In such situations, when aggression cannot be channeled into a healthy, positive edge, it becomes inhibited and goes underground. What could have been healthy competition becomes a secret feeling of envy and desire for the other to fail – laced with guilt and shame.”
I numerosi svantaggi che caratterizzano le loro vite, le difficoltà che incontrano per affermarsi, le pressioni sociali portano le donne automaticamente a vedere nell’altra un possibile pericolo, alimentando così questa aggressività latente.
Trovo molto interessanti, infine, gli studi dei sociologi Bob Faris e Diane Felmlee, dai quali si evince che i/le bambin* con amicizie dell’altro sesso sono meno aggressiv* nei confronti dei/delle bambin* del loro stesso sesso. Questo vale, però, solo in ambienti in cui le amicizie fra maschi e femmine non sono rare, altrimenti si ha l’effetto contrario.
Educare i/le propri/e figli/e alla bellezza e alla normalità della diversità, che sia di genere o etnica, è l’unico modo per superare certe dinamiche. E per impedire che da grand* riversino le loro insicurezze su una bambina di quattro anni.