Criminalità sui generis

Qualche settimana fa, guardando in rete il video di bullismo femminile avvenuto a Bollate, ho notato che molti utenti, oltre ad esprimere commenti/insulti sessisti (appellativi quale “troia”, “puttana” et similia, giudizi sull’aspetto fisico, etc…), si sono indignati in particolare per il fatto che a compiere un atto di violenza sia stata proprio una donna.

In generale, la donna  violenta o la donna delinquente viene rappresentata dai media ed avvertita dalla società come particolarmente crudele, anormale ed imprevedibile (la c.d. strega), psicologicamente instabile e perciò subdolamente pericolosa, soggetta (a parità di gravità del reato) ad un maggior rimprovero da parte della società.

Difatti, quando una donna compie un atto violento, penalmente rilevante, in realtà – a differenza dell’uomo – sta violando due norme: una norma di carattere naturale (cioè vìola la sua natura femminile, che la vede buona, calma, sottomessa, incapace di violare coscientemente una legge); ed una norma giuridica.

L’odierna rappresentazione mediatica e sociale della donna delinquente risente ancora delle vecchie teorie positiviste (a testimonianza del fatto che poco è cambiato da allora) sulla criminalità femminile.

Tra tali teorie vi è quella formulata nel 1893 da Cesare Lombroso, il quale, nel libro “La donna delinquente, la prostituta e la donna normale”, sosteneva che la causa della minore diffusione della criminalità femminile era da individuarsi nella maggiore debolezza e stupidità della donna rispetto all’uomo.

Le cause dell’ “onestà femminile” erano da collegarsi alla “pietas materna, all’incoscienza e all’incapacità di scegliere”. Se nonostante queste innate caratteristiche la donna commetteva delitti era “segno che la sua malvagità era enorme”.

Secondo l’autore, la donna criminale aveva caratteristiche maschili, in quanto era più intelligente, più audace, più forte e più erotica della “donna normale”. A questo si aggiungevano “le caratteristiche femminili peggiori” quali l’inclinazione alla vendetta, la menzogna, etc…, “formando così dei tipi di malvagità che sembrano toccare l’estremo”.

Tali teorie sono rimaste in auge per molto tempo, almeno fino agli anni ’70 del Novecento, quando l’attivarsi dell’emancipazione femminile ha comportato una nuova attenzione anche all’aspetto criminologico.

Illustrazioni originali del 1893, tratte dal libro "La donna delinquente, la prostituta e la donna normale".

Per completezza d’informazione, va detto che, nel frattempo, vi sono state altre teorie, aventi un seguito minore, che in questa sede possono essere solamente accennate.

Mi riferisco, ad esempio, alle teorie c.d. classiche (nate negli anni ’60), che ritengono che in realtà le donne commettano illeciti tanto quanto gli uomini, anche se in modo “mascherato”.

Questo per vari motivi, tra cui “il subdolo limitarsi della donna al ruolo d’istigatrice o mediatrice di delitti”, oppure per il fatto che i giudici e le forze dell’ordine avrebbero nei confronti del “gentil sesso” un atteggiamento “cavalleresco”, protettivo e benevolo.

Tralasciando tali marginali teorie, riprendiamo il discorso dagli anni ’70, quando la criminalità femminile è divenuta materia d’indagine anche da parte di studiose che hanno tentato di guardare il problema da un’ottica diversa.

Tra queste, la più importante è Freda Adler, che pone la criminalità femminile delle società occidentali in relazione con l’emancipazione, la differenziazione dei ruoli e le opportunità.

Secondo l’autrice, la donna non delinquerebbe tanto quanto l’uomo perché ancora sottomessa nel ruolo familiare e sociale. Soltanto quando la donna avrà raggiunto la stessa posizione sociale sarà in grado di commettere reati tanto quanto lui.

La Adler evidenziò, altresì, come l’emancipazione avrebbe portato ad un mutamento non solo quantitativo, ma anche qualitativo della criminalità femminile, che non sarebbe stata più relegata ai reati minori. L’emancipazione offrirebbe quindi alle donne più opportunità, sociali ed economiche, sia lecite che illecite.

Tale teoria ebbe un notevole seguito e condizionò largamente tutti gli studi successivi (ad. es. la teoria del controllo del potere di Hagan), che, in sostanza, finivano per riproporre, seppur con varianti,  la teoria emancipazionista.

Tuttavia le teorie emancipazioniste sono state periodicamente messe a confronto con i dati statistici, i quali ci dicono che, nonostante l’emancipazione in itinere, il tasso di criminalità femminile è rimasto nettamente inferiore rispetto a quello maschile. Da una verifica ISTAT relativa all’anno 2010 è emerso che in Italia le donne condannate sono state 36.346, contro 193.494 uomini condannati, rappresentando quindi il 15,81% del totale.

L’andamento percentuale delle condanne femminili rispetto al totale maschi-femmine è rimasto, seppure con qualche oscillazione, sempre costante nel corso degli anni (intorno al 15% di media), toccando una minima del 12,17% nel 1991 ed una massima del 34% nel 1945.

Dunque, come interpretare i dati statistici? Perché le donne, nonostante una maggiore emancipazione rispetto a decenni fa, continuano a commettere meno reati?

Non è facile rispondere ad una simile domanda e probabilmente, data la complessità della materia, non esiste neppure una sola risposta. Sono tanti i fattori e le concause in gioco.

Forse le teorie emancipazioniste hanno, in parte, ragione. Nonostante alcuni proclami di una raggiunta parità, i dati ci dicono che le donne ancora oggi lavorano meno degli uomini e lo spazio ad esse destinato è ancora in prevalenza quello domestico. I salari femminili sono inferiori a quelli maschili e le posizioni lavorative apicali (consigli di amministrazione, ruoli direttivi, etc…) sono ancora appannaggio maschile.

Va da sé che molti reati che presuppongono posizioni di comando (ad esempio i c.d. reati d’impresa) ancora sono compiuti prevalentemente da uomini.

Ma, oltre a questo, è bene riflettere su un paio di questioni fondamentali.

Tutte le teorie fin qui esaminate, comprese quelle emancipazioniste, hanno come comune denominatore il fatto che l’osservazione e lo studio della questione siano condotte da un’ottica esclusivamente femminile: “perché le donne delinquono meno?”  “Le donne arriveranno un giorno a delinquere quanto gli uomini?”

Come mai le domande non sono state queste: “perché la criminalità maschile è così estesa?”  “Gli uomini arriveranno mai a delinquere quanto le donne?”

La risposta risiede nel fatto che gli uomini hanno continuato e continuano ad incarnare il canone, il prototipo, la norma, con la conseguenza che tale “neutralità” ha reso invisibile il genere maschile, al quale è stata dedicata un’attenzione qualitativamente e quantitativamente inferiore a quella ricevuta dal genere femminile.

In questo modo, l’uomo, che rappresenta il genere umano universale, non ha bisogno di pensare in termini di genere e perciò può convincersi di non essere condizionato dalla sua mascolinità.

In realtà, come scrive Chiara Volpato in “Psicosociologia del maschilismo”, “se Simone de Beauvoir ci ha insegnato che non si nasce donna ma lo si diventa, allo stesso modo, non si nasce uomo, lo si diventa.”

La costruzione del proprio genere di appartenenza (“doing gender”) è un compito che inizia nella primissima infanzia e dura tutta la vita.

E la costruzione della mascolinità è spesso assai ardua: i maschi devono costantemente dimostrare di essere “veri uomini”, attraverso riti formativi e prove di virilità che hanno a che fare con l’aggressività, la dimostrazione dell’attitudine al comando, la difesa dell’onore, l’enfatizzazione della sessualità, etc….

L’identità sessuale femminile è messa in discussione meno frequentemente di quella maschile e gli uomini, per preservare la loro virilità e quindi il loro genere, sono costretti ad allontanare da sé tutto quello che è “in odore di femminilità”. Per questo motivo, quando ci si riferisce ad un prodotto “neutro”, è sempre il maschio ad essere rappresentato e mai la femmina (ad es. nei giocattoli). Perché l’uomo è più intransigente sulla sua identità sessuale.

Gli studiosi (Volpato, Bereska) hanno dimostrato che “vi è una stagnazione nelle prescrizioni di mascolinità. Negli ultimi decenni, l’attenzione si è concentrata sul mondo femminile, lasciando inalterato quello maschile. Così il mondo delle ragazze è cambiato, quello dei ragazzi poco.”

Mentre lo stereotipo femminile appare relativamente dinamico (oggi le donne sono percepite più capaci, assertive ed ambiziose), quello maschile appare statico, caratterizzato ancora da un’aggressività sentita come naturale e legittima e dal costante rifuggire dal lavoro domestico e di cura, lasciato ancora quasi totalmente in mano alle donne.

Quindi, tornando alle ultime teorie criminologiche e alla luce delle riflessioni fatte, ritengo che la Adler e i suoi successori, parlando di “emancipazione femminile” e “mascolinizzazione della donna” abbiano, in primo luogo, focalizzato l’attenzione sul soggetto sbagliato e, in secondo luogo, abbiano finito con il confondere l’emancipazione con il passare, “saltellare” da uno stereotipo di genere all’altro.

Emancipazione significa invece liberare, decostruire, sfaldare gli stereotipi di genere, partendo in primis da quello maschile, ancora così granitico nei suoi postulati e prescrizioni e che ha contribuito in buona parte a produrre quelle conseguenze che i dati ISTAT ci ricordano quotidianamente.