Campagne contro la violenza di genere tra occhi neri e campane di vetro

31 luglio 2014

Un paio di settimane fa, in occasione del summit informale dei ministri dell’interno europei, veniva presentato un cortometraggio contro il femminicidio e la violenza di genere dal titolo “Metamorfosi, non mi chiamare amore”.

Già sappiamo quanto sia difficile trattare l’argomento della violenza maschile sulle donne e quanto, soprattutto, sia difficile raccontarla attraverso una campagna anti-violenza. Sappiamo, inoltre, che dovrebbero essere persone competenti, che si attivano quotidianamente – sia a livello pratico che comunicativo – ad occuparsene.

La presentazione della campagna, invece, è stata lasciata in mano a due soggetti che fanno sorgere più di un dubbio, eufemisticamente, in merito a competenza e reale interesse verso il tema: il nostro ministro dell’interno, Angelino Alfano (colui che da poco aveva annunciato pubblicamente l’avvenuta individuazione dell’assassino di Yara Gambirasio e si era complimentato con le forze dell’ordine, in uno stato di diritto in cui vige la presunzione di innocenza e “assassini” si è eventualmente dichiarati dopo tre gradi di giudizio; colui che non perde occasione per metterla sul piano securitario, ignorando le questioni a monte e scavalcando la privacy degli interessati per parlare alla pancia della gente e creare facile consenso) e la consigliera sulle problematiche legate al femminicidio e per le politiche contro la violenza di genere, Isabella Rauti, nominata dallo stesso Alfano, una donna che non ci ha pensato due volte ad esprime il suo dissenso verso il femminismo, opponendosi anche alla legge 194, ma che è stata sempre in prima fila per sostenere la legittimità del concorso di bellezza che incorona la “reginetta più bella d’Italia”.

Ma vediamo il cortometraggio in questione:

Il video comincia con la voce fuori campo di un uomo (perché un uomo? chi è?) che dice: “Devi trovare il coraggio di denunciarlo!

Poi compare il viso tumefatto (in modo palesemente finto, a causa di un lavoro di trucco grossolano della “make up artist”) della ragazza. Perché, evidentemente, se non hai l’occhio nero ben visibile significa che non subisci violenza; lo stalking, la violenza psicologica e quella fisica che ti corrode da dentro  – ma non si vede – non hanno legittimità.

Perché i lividi esistono e hanno diritto di essere mostrati, ma qui, come al solito, non si fa altro che ricadere in uno stereotipo trito e ritrito, perché magari l’”occhio nero” di una donna non è il risultato di un pugno sul volto e non è così circoscrivibile. E una campagna antiviolenza dovrebbe ben saperlo, che la violenza non è sempre così facile da riconoscere e affrontare. E lo stereotipo dell’occhio nero non aiuta. Ma un po’ di ombretto intorno all’occhio sembra essere la strada più facile per rappresentare qualcosa di così complesso e sfaccettato come la violenza di genere.

La donna guarda in basso, poi solleva il viso e dichiara: “Io ho paura“.

Sono passati solo pochi secondi dall’inizio del corto e già sappiamo che il video è indirizzato alle donne, alle vittime di violenza, per dir loro quello che dovranno o non dovranno fare.

Dopo di che si susseguono diverse immagini della vita quotidiana di questa donna, che racconta la violenza subita attraverso parole in dizione perfetta, col sottofondo di una colonna sonora “da oscar”. Coi suoi vestiti firmati gira per la città, rappresentando il classico stereotipo della “perfetta ragazza italiana” bionda/bianca/bella/magra/benestante, che tanto piace ai nostri media (dove sono le nostre vicine di casa, le prostitute, le trans, le donne non italiane, le “amanti”, …? Dove sono tutte le altre donne?)

C’è bisogno di parlare alle donne? Se sì, come? Perché? E agli uomini?

Domande dalle risposte disattese.

Il modello di violenza veicolato è quello unico. Forse, davvero, l’omicidio di una prostituta ha meno valore. Quando spesso la violenza risulta proprio la “punizione” verso chi non si conforma al modello imperante di donna e disattende le aspettative sociali di genere.

Qui ad essere infranto è solo il sogno d’amore all’interno della classica coppia formato mulino bianco: entrambi piacenti, entrambi bianchi. Insomma, due attori perfetti. 

Quello che possiamo vedere sono solo lunghe scene da film, in cui la vittima di violenza sta nuda sotto la doccia (in segno di vulnerabilità?), come in un qualsiasi film drammatico che si rispetti. Anche la scena della doccia risulta un cliché.

Durante le immagini compare persino un testo scritto che esalta la legge, la protezione, l’inasprimento delle pene, quando c’è tutta una serie di rivendicazione per cui lottiamo ogni giorno, e che combattono la stessa violenza, che rimangono perennemente inascoltate: quella di essere rappresentate per quello che siamo, quella di decidere sui nostri corpi, perché nessuno ci dica cosa dobbiamo indossare e con chi dobbiamo accompagnarci di notte o ci imprigioni nel ruolo di madre a tutti i costi, anche quando non lo vogliamo, e di ornamento decorativo.

Perché anche, e soprattutto, da queste rivendicazioni passa l’autodeterminazione e la possibilità di ribellarsi alla violenza e alla segregazione di genere, libertà che Alfano e Rauti paiono, al contrario, volerci togliere. Perché non basta schiacciare “on” e mandare in scena un video retorico sulla necessità di denunciare per aver fatto qualcosa contro la violenza di genere.

Alla fine la donna si guarda in una vetrina e, vedendosi ridotta in quello stato, sembra decidersi a denunciare. Benissimo. E se i lividi fossero più profondi?

La scritta “Polizia” campeggia in alto, poi il buio.

Quando il fidanzato torna dalla ragazza con una scusa non si capisce se lei gli aprirà o meno, lasciando il dubbio come nel più classico dei film gialli. Si sente il rumore del chiavistello. Avrà aperto? Non avrà aperto? Cosa sarà successo?

Un finale incomprensibile in cui si presagisce un epilogo tragico. Allora ci si chiede se la ragazza avrà davvero denunciato, come dice. Ancora una volta la responsabilità della sorte di una donna dipende dalle sue azioni. Dal fatto che abbia deciso di denunciare o meno. Quando sappiamo come molto spesso la denuncia, anche reiterata, a conti fatti serva davvero a poco e quanto le forze dell’ordine siano profondamente ignoranti per quel che concerne la violenza di genere. Ma tant’è.

E poi arrivano i titoli di coda, si susseguono immagini in bianco e nero del backstage: cuffiette, telecamere, foto da book, il ciack… Come in ogni fiction mediaset che si rispetti. E qui ti svegli, senti una sensazione di finzione, di lontananza dalla realtà, di straniamento. La violenza è finzione, è fiction?

E come in una fiction, quanto saranno costati attori professionisti, direttori della fotografia, musica, riprese, make up, montaggio, ecc.? Quanti soldi saranno stati investiti per le solite operazioni di facciata mentre la rete dei centri antiviolenza Di.Re sta protestando contro il riparto dei fondi destinati alle strutture che accolgono le vittime degli abusi? Una cifra ritenuta molto bassa e gestita male: “La distribuzione dei fondi non e’ chiara e penalizza i centri ‘storici’ che in Italia hanno avuto il merito di svelare il fenomeno della violenza contro le donne. Questa generica ripartizione delle risorse economiche (6.000 euro, ndr) non porterà alcun cambiamento ma rischia solo di incrementare il pericolo di risposte inadeguate per le donne che chiedono aiuto” dichiarano.

Ci serve davvero questa propaganda patinata? E perché i centri anti-violenza, dove le operatrici vengono formate per dare un rifugio pratico e psicologico alle vittime di violenza, senza i paternalismi delle istituzioni, non vengono raccontati? Perché non vengono mai interpellat* le/gli attivist* che si occupano quotidianamente di queste problematiche, senza pontificare dall’altro di una carica istituzionale?

Domande senza risposta che fanno capire quanto la battaglia contro la violenza di genere sia più che altro un obbligo morale di facciata che un vero interesse che guardi alle reali esigenze delle donne, tra cui quella di avere gli stessi strumenti per poter vivere autonomamente la propria vita.

E sempre di questi giorni è un’altra campagna anti-violenza che arriva dall’India:

In questo caso il video, condiviso dai più in rete come esempio positivo, si apre con una ragazza che cammina per strada, con dei libri di scuola in mano, quando viene adocchiata da una coppia di uomini che inizia ad osservarla e seguirla finché questi, con fare complice, le si piazzano davanti per intimorirla.

Un ragazzo, però, vede la scena e si mette tra la ragazza e i soi due “aguzzini”. Poi ne arriva un altro e gli uomini diventano due, poi tre, quattro, cinque, sei, sette, otto. Si prendono per mano e rinchiudono la ragazza dentro ad un cerchio.

La ragazza ora non è più intimorita, solleva il volto in segno di forza.

Infine una scritta campeggia sullo schermo: “Ogni religione protegge le donne, proteggere le donne è religione“.

Un messaggio per gli uomini, in questo caso, per dire loro di fare rete e biasimare gli atteggiamenti di violenza maschilista. Benissimo. Meno bene perché non ci dice su che cosa farà affidamento la donna quando non avrà la tutela maschile, perché viene tirata in ballo la religione come funzione paternalistica, che pone la donna in condizione subalterna di dipendenza nei confronti dell’uomo, in modo che possa essere salvata solo da una figura maschile.

Più che un messaggio di solidarietà sembra quindi veicolare vulnerabilità femminile, il bisogno di protezione della donna da parte del più forte. I due molestatori vengono biasimati, ma poco ci viene detto della cultura misogina trasversale a tutte le realtà sociali. Perché il sostegno sociale è fondamentale, ma in questo caso viene creato un muro, che protegge e allo stesso tempo divide, fatto solo di uomini. La donna non viene presa per mano dall’intera comunità, la donna è messa in una campana di vetro da parte di altri uomini. 

 

E quindi, in entrambi i video, agli uomini viene detto di proteggere, di farsi tutori, e alle donne di richiedere e affidarsi alla protezione maschile, che sia da parte delle istituzioni o del passante per strada.

Forse vale la pena ribadire ancora una volta che siamo stanche delle campane di vetro e l’unica cosa di cui necessitiamo sono diritti, strumenti e autodeterminazione.