Sul perché la vittoria di Meloni non rappresenti una vittoria femminista

Nel 1976, Simone de Beauvoir, in un’intervista su “Society” dichiarò:

Una femminista, si consideri o no di sinistra, è di sinistra per definizione. Lotta per un’uguaglianza totale, per il diritto di essere importante, valida, quanto un uomo. E’ per questo che l’esigenza dell’uguaglianza delle classi è implicita nella sua ribellione per l’uguaglianza dei sessi”.

Incalzata poi dal giornalista John Gerassi, che le chiese se la presa di coscienza fosse di appannaggio delle donne di sinistra, lei rispose:

“Senz’altro, dal momento che le altre sono conservatrici cioè vogliono conservare ciò che è stato o ciò che è. Le donne di destra non vogliono la rivoluzione. Sono madri e mogli devote al marito. O se sono attiviste vogliono una fetta più grossa della torta. Vogliono guadagnare di più, vedere più donne in Parlamento, vedere una donna Presidente. Credono nella disuguaglianza e preferiscono essere ai gradini superiori anziché inferiori della scala. Si trovano bene nel sistema così com’è o lievemente modificato per le loro esigenze.[…]Il capitalismo può benissimo permettere alle donne di entrare in polizia o nell’esercito[…] ed è abbastanza intelligente da permettere ad un maggior numero di donne di fare parte del governo. Lo pseudo-socialismo può permettere ad una donna di diventare segretario generale del partito.[…] Ma cambiare tutto il sistema di valori di una società, distruggere i miti creati intorno alla maternità, questo sì che è rivoluzionario”.

Domenica sera, a seggi chiusi, abbiamo condiviso sulla nostra pagina Facebook una riflessione e un interrogativo rivolto a tutt* voi: la vittoria di Giorgia Meloni può definirsi una vittoria femminista?

La risposta è stata quasi del tutto univoca —qualcun* si è persino indignat* che noi ponessimo il quesito—, la risposta è stata quasi per tutt*: no. Come spiegavamo domenica, anche per noi non lo è affatto e nel passo, tratto da “Quando tutte le donne del mondo”, Simone de Beauvoir spiega perfettamente perché.

E spiega perfettamente la differenza tra essere femministe —che di per sé è una condizione rivoluzionaria poiché comporta lo scardinamento di una serie di valori che sono i capisaldi di una società non solo maschilista, ma anche capitalista— e essere una donna che ambisce -perlopiù per un tornaconto personale e non per un’azione collettiva o per una presa di coscienza— ad una donna come Presidente o ai vertici di un’azienda.

Precisiamo, ça va sans dire, che ovviamente anche il femminsimo ambisce ad una rappresentazione sempre più ampia delle donne in qualsiasi campo, ma il femminismo non si può ridurre unicamente a questo.

Qualche tempo fa in un post sempre attuale sul 25 aprile scrivevamo:

Una femminista è antifascista per definizione, innanzitutto per un motivo storico.
Ogni volta che incontriamo riferimenti a cosiddetti “femminismi di destra”, legati ad organizzazioni fasciste del Ventennio o contemporanee neofasciste, sappiamo di incontrare un falso.

E’ un falso che il regime fascista valorizzasse le donne. Durante la dittatura mussoliniana le donne, le camerate, erano strumentalizzate solo ai fini di raggiungere l’elettorato femminile e rese partecipi del processo di affermazione del modello dell’ “angelo del focolare” attraverso una politica demografica e di familiarizzazione.

Già nel 1927 con il “Discorso dell’ascensione” di Mussolini alla Camera dei Deputati, le donne sono confinate al ruolo di tutrici della demografia nazionale, destinandole all’unico obiettivo di procreare i figli “dello Stato”, nemmeno propri, ma di una Nazione. Ancor più che prima del Ventennio, le donne sotto il fascismo si ritrovarono costrette nell’ambito domestico e familiare, private anche solo del tentativo di emancipazione e di ogni maggiore influenza politica ed economica.

Nel 1925 fu istituita l’ONMI Opera nazionale maternità e infanzia e con l’avvento del regime fascista nel 1922 e l’instaurarsi della dittatura a partire dal gennaio 1925 si dà corpo al progetto della cosiddetta battaglia demografica. Oltre a questo l’ente si poneva due imperativi tipicamente fascisti: il controllo e l’educazione dei giovani fin dalla prima infanzia e  l’istituzione guida per la “modernizzazione della maternità”.

Il vero risultato ottenuto da questo ed altri enti fascisti per la maternità, fu contribuire a rendere le donne semplici portatrici di prole per servire la Nazione, dimenticandone in toto l’identità di cittadine e esseri umani. Durante la prima “Giornata della madre e dell’infanzia”, le donne più prolifiche d’Italia, insignite di un’onorificenza, vennero chiamate non per nome, ma per numero di figli.

Sostenere che il femminismo debba essere antifascista per definizione, serve quindi a ribadire un fatto storico, cioè l’oppressione del regime mussoliniano nei confronti delle donne, ma anche altro tipo di considerazione.

Il patriarcato non nasce certo con il fascismo, ma dal Ventennio ad oggi è proprio dalle sacche subculturali fasciste che ha trovato piena capacità di espressione —nel pubblico e nel privato.

I capisaldi del neofascismo oggi continuano ad escludere il soggetto donna, a considerarlo differente e destinato a diversi ruoli rispetto a quelli maschili. Questo dualismo è fisso ed immutabile e si concretizza nel rifiuto dell’autodeterminazione, nel rifiuto delle differenziazioni di genere, accettando solo il binomio maschio/femmina e declinandosi quindi verso omofobia, lesbofobia, transofobia e costrizione ai generi naturali e culturali imposti.

Negli anni il neofascismo ha preso parte nei dibattiti sulle donne e sui loro diritti solo in due casi: o nella colpevolizzazione sull’interruzione di gravidanza o nei casi di violenza sessuale in cui implicato ci fosse una rom o un immigrato.

Nei manifesti delle varie coalizioni di estrema destra le donne diventavano “tua madre, tua moglie o tua figlia”, senza identità solo esseri da proteggere dagli “invasori”.

Tutto quello che abbiamo elencato più su non fa parte di un passato remoto, non è assolutamente anacronistico parlarne, l’estrema destra non si è modernizzata, né basterà una donna al potere per cambiare i loro “valori” e i capisaldi delle loro politiche.

Basti pensare alla pratica dei cimiteri dei feti —argomento che abbiamo largamente trattato, tra le altre cose contribuendo ad un importantissimo reportage pubblicato sul “The Independent”—, proprio in una recente intervista su Tpi, un esponente di Fratelli d’Italia, Luca De Carlo, ha dichiarato: “Ripresenteremo la proposta legge sulla sepoltura dei feti senza consenso delle madri”,  un reportage sull’esempio delle Marche, il modello che l’eventuale governo Meloni ha in mente per i diritti riproduttivi in Italia: limitato accesso all’aborto e cimiteri dei feti.

C’è da ricordare che il “sistema Marche” modello così esaltato da Meloni e regione guidata proprio da Fratelli d’Italia ha, tra le altre cose, rifiutato di adottare le linee guida del ministero della Salute per l’uso della pillola abortiva RU486 e dove più del 70% dei ginecologi è obiettore di coscienza.

In una nota intervista Giorgia Meloni ha dichiarato: “Non mi risulta che in Italia sia accaduto da nessuna parte che una donna che volesse interrompere la gravidanza non abbia potuto farlo[…]il diritto all’aborto in Italia è sempre stato garantito”. Ricordiamo invece a Meloni che in alcune regione —come ad esempio il Molise— il numero dei medici obiettori supera il 90% e che  nel 35% delle strutture pubbliche non è possibile accedere ad una interruzione di gravidanza.

Tra i punti principali del suo programma, proprio come nel Ventennio con l’ONMI, c’è quello di incentivare la natalità e la genitorialità.

Tra le fila di Fratelli d’Italia troviamo una delle esponenti più attive di ProVita e Famiglia e proprio la stessa coalizione con a capo Giorgia Meloni si è impegnato a firmare la “Carta dei principi” di ProVita e Family Day.

Da questa Carta emergono proposte che finiranno con molta probabilità nell’agenda Meloni: il contrasto all’aborto — definito “soppressione di una vita umana inerme e innocente”— , l’istituzione di una Giornata nazionale della vita nascente, la promozione del matrimonio tra uomo e donna, l’opposizione alla gestazione per altri, il sostegno alle famiglie numerose e  “il contrasto a ogni tipo di progetto di legge volto a introdurre il concetto e il reato di omotransfobia e le adozioni di minori a single o coppie di persone dello stesso sesso”. Senza contare il contrasto alla fantomatica lobby lgbt e all’ideologia  di genere.

La nostra posizione è abbastanza chiara e sebbene concordiamo sul concetto pluralità, quindi di “femminismi”, rispettando la diversità di pensiero, non possiamo certamente esultare per la vittoria di Meloni, né possiamo comprendere come la vittoria di una donna che potrebbe mettere a repentaglio i diritti essenziali di altre donne e altre categorie — diritti conquistati dopo secoli di durissime lotte e di attivismo— possa in qualche modo rappresentare una vittoria per tutte noi.