Lo stigma del congedo di Paternità, in Italia

Vi ricordate il vecchio welfare? Caratteristica dei moderni stati di diritto che si fonda sull’applicazione del principio di uguaglianza, art 3 della costituzione?

Seguendo i temi di attualità, che ci vedono uniti/e nello sconfessare il motto di considerare la fertilità come un bene comune della nazione, disarticolandola dal desiderio e dalla volontà delle eventuali madri, non possiamo non interrogarci: ma il welfare a tutela di queste madri e di conseguenza di questi nuclei famigliari a che punto è, davvero?

Ugo Ascoli, professore all’università politecnica delle Marche, esperto di sociologia dei processi economici e del lavoro, in un interessante articolo, di cui estrapolo, spero contestualizzandole correttamente, alcune frasi, ci indica cinque “caratteristiche fondamentali del welfare-state italiano”. Ci insegna, preliminarmente, che “Il nostro Welfare-state corrisponde, innanzitutto, a un modello particolaristico. Inoltre è un modello largamente appoggiato su culture clientelari, profondamente dualistico, basato prevalentemente su trasferimenti di reddito, piuttosto che su servizi”. Ultima delle cinque caratteristiche, ma non di minore importanza: è un sistema “largamente basato su una cultura familistica, paternalistica e patriarcale.”

Familistica, paternalistica, e patriarcale.

Non ci stupisce, che sia diversamente declinata, ma pur sempre vacua, la presenza di un welfare, di uno stato sociale, che dovrebbe attutire i dislivelli economici e sociali che infestano tutto il mercato del lavoro, per quanto rigaurda il GenderGap. Né tanto meno ci insospettisce la diversa caratura che invece avvertiamo, nella ipertrofica e smodata elargizione (n.b. elargizione) legislativa sulla maternità, sopratutto quando è atta ad incentivarla.

Se anche l’Italia a partire dal 1898 può vantare le sue basi di welfare sulla intuizione di Bismarck, è anche vero che “si è trattato di interventi “concessi” dall’alto, mirati su determinati gruppi sociali, facendo così assumere alle politiche sociali un carattere particolaristico, dove cioè le prestazioni appaiono fortemente differenziate a seconda del soggetto cui si riferiscono.” (U. A.).
La seconda questione da affrontare è il carattere clientelare delle politiche sociali. Il Welfare state italiano ha posto sempre, o quasi sempre, alla base delle sue prestazioni meccanismi di “scambio politico”: le prestazioni venivano utilizzate, sia al livello “alto” del Parlamento, che a livello “basso”, per una manipolazione di tipo clientelare. Sebbene anche gli altri due punti citati siano molto interessanti, sopratutto quando si discute delle manipolazioni di tipo clientelare sull prestazioni, vorrei concentrarmi su come il nostro Welfare state si sia da sempre appoggiato su una cultura della famiglia profondamente patriarcale e paternalistica.

Ed è qui che si innerva lo sbilanciamento continuo e imperterrito della nostra applicazione normativa dei principi egualitari.
Se solo si nota che ci sono voluti trenta lunghissimi anni, dopo la promulgazione della Costituzione, per avere una legge sulla parità tra uomo e donna nel mercato del lavoro, legge che, come possiamo evincere dai dati, è stata per lo più aggirata, se non completamente ignorata o lacerata a colpi di eccezioni, abbiamo subito chiaro il substrato culturale dal quale ha preso le mosse il nostro welfare. Ci sono voluti anni, e lotte, per applicare almeno formalmente il principio basilare di ogni stato democratico: a uomini e donne caratterizzati dalla stessa mansione doveva essere riservato lo stesso trattamento economico, cioè una retribuzione identica. Eppure questo viene costantemente smentito persino dai dati Istat.

E’ triste da ammettere, ma il nostro welfare si è articolato negli anni su una diffusa cultura familistica e una visione patriarcale e funzionalistica della famiglia. E questo bisogna sempre tenerlo a mente.

Si è supposta e applicata con rigore legislativo, la scissione preordinata dei ruoli all’interno della famiglia, riservando alla donna quelli volti alla educazione dei figli, alla gestione del mènage familiare ed all’accudimento degli anziani, suffragata dalla visione “cattolica” della donna “regina del focolare”

Questo ha eroso la figura femminile sul mercato del lavoro, per anni, cosicché a livello sociale non venissero intaccati i suoi compiti, ritenuti “naturali”.

Si è giunti ad un bivio per il legislatore: o una riformulazione del welfare in chiave anti-sessista, o una frattura sociale insanabile.

Quando, negli anni 80 si è assistito ad un timido ingresso della donna nel mondo del lavoro e la richiesta di nuovi diritti per il welfare, quali una gestione giuslavorista della maternità, i congedi parentali, gli assegni di maternità, più, o sopratutto meno, conformi a quei modelli che vigono nel nord europa, il flusso continuo di modifiche e riforme legislative al welfare, fino a quel momento vigente, non è stato più in grado di sorreggere e recepire il mutamento sociale.

In quale stato, quindi, si gode di un più attento (e meno sessista) welfare-state per le donne che intraprendono la irta strada della genitorialità?
Qual è la migliore o la peggiore nazione dove crescere un figlio? Ce lo dicono quiCongedo parentale f

La Svezia in questa classifica, si posiziona ai primi posti, e per quanto riguarda il congedo parentale: i genitori possono chiedere fino a 480 giorni all’80% dello stipendio, e madri e padri sono incoraggiati a dividersi equamente questo periodo. E questo avviene, grazie anche al giusto fermento culturale.

Le donne francesi, invece, ricevono il salario pieno per le prime 16 settimane di congedo di maternità per il primo e il secondo figlio, e 26 settimane per ogni figlio dal terzo in poi. Inoltre, le neomamme possono ottenere fino a tre anni di congedo “protetto” con sovvenzioni per baby-sitter a domicilio, assistenza ai bambini e generose indennità mensili.

Miglior esempio virtuoso sembrerebbe essere la Norvegia in cui: i genitori possono scegliere tra un congedo di 46 settimane al 100% della retribuzione e di 56 settimane all’80%. Di questo periodo, 12 settimane sono riservate ai padri: se gli uomini rifiutano di usufruirne, non possono farlo le mogli al loro posto (e quindi i tre mesi vengono persi).

Gli Usa sono, invece, in fondo alla classifica. Una situazione peggiore si trova solo in Swaziland (Africa del Sud) e Papua Nuova Guinea.

Nev Schulman, insieme alla sua fidanzata Laura, ci spiegano che il congedo per maternità non solo non è pagato, ma non è nemmeno assicurato al padre. E ce lo spiegano in questo simpaticissimo video.

Quindi: in generale, le mamme ottengono una media di 106 giorni di permesso per un nuovo bambino, mentre papà solo sette giorni. Cioè una settimana. Queste politiche sono chiaramente sessiste.

Perché la maternità non è un lavoro per donne.

Il video continua dicendo che uno studio in Svezia ha dimostrato che per ogni mese di paternità usufruito dal padre, il reddito della sua partner aumenti in media del 7%. Ma non è solo una questione economica, i primi mesi della nascita di un figlio sono i mesi cruciali per entrambi i genitori, per coltivare un legame profondo con il proprio nuovo nucleo famigliare. Sempre uno studio norvegese ha dimostrato che per ogni giorno di congedo di paternità preso, le prestazioni scolastiche dei bambini e delle bambine migliorano sensibilmente.

In Italia, in effetti, il congedo di paternità è previsto: ma quanti uomini e famiglie ne colgono l’importanza?

E’ proprio qui che si riesumano antiche tradizioni sessiste e patriarcali che dobbiamo demolire.

La concezione diffusa prevede che scegliere il congedo di paternità sia persino “ridicolo”, non virile, e nella migliore delle concezioni maschiliste, non necessario.

Nel video si parla addirittura di “stigma about being on the daddy track”, cioè lo stigma di un padre che, per trascorrere più tempo con i suoi figli, è disposto a rallentare la sua carriera lavorativa. Lo stigma. Il solito circuito virtuoso dell’esempio dimostra che se un uomo incontra un altro uomo, che ha già usufruito del congedo di paternità, sarà più incentivato a farlo.

La situazione italiana qual è?

Ecco cosa ha previsto lo stato italiano con l’ultima riforma, il Jobs act, Legge 10 dicembre 2014, n. 183, e i suoi numerosi decreti attuativi tutti emanati nel 2015. (Alla fine dell’articolo troverete i dati in maniera più precisa, per chi volesse approfondirli.)

Lo stato (o per meglio dire L’Inps) mette a disposizione dei genitori, sia madre che padre, il congedo parentale.

In cosa consiste esattamente? Oltre alla maternità obbligatoria, che in quanto tale è obbligatoria, esiste infatti anche un facoltativo congedo parentale, il quale, con la Legge di Stabilità 2016, ha anche qualche agevolazione in più sulla paternità.

E’ bene sottolineare che il congedo parentale è un diritto, un diritto spettante sia alla madre e sia al padre, di godere di un periodo di dieci mesi di astensione dal lavoro da ripartire tra i due genitori e da fruire nei primi dodici anni di vita del figlio o della figlia (in base al D.Lgs. 80/2015, in vigore dal 25 giugno 2015).

La funzione dei congedi parentali è quella di consentire la presenza del genitore accanto al bambino nei primi anni della sua vita al fine di soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali. In genere per tutte queste categorie la retribuzione dei lavoratori durante i giorni di congedo parentale è pari al 30% della retribuzione normale.

La durata complessiva del congedo parentale non deve superare i dieci mesi.

Precisamente:

• alla madre lavoratrice compete, trascorso il periodo di congedo obbligatorio di maternità, un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi;

• al padre lavoratore compete un periodo continuativo o frazionato non superiore ai sei mesi;

Se il padre fruisce del congedo parentale per almeno tre mesi, il periodo complessivo dei congedi per i genitori è elevato a undici mesi complessivi, quindi il padre potrà usufruire di un periodo complessivo di sette mesi (in questo modo la legge tenta di incentivare la fruizione dell’astensione facoltativa da parte del padre, contrastando un’abitudine socialmente consolidata che vede la madre maggiormente coinvolta nella cura dei figli).

Con la Legge di stabilità del 2016 il congedo obbligatorio del padre è stato aumentato da uno a due giorni che possono essere goduti anche in via non continuativa, per gli eventi parto, adozione o affidamenti.

Come tutte le migliori Novellae constitutiones: Facta lex inventa fraus.

Al netto delle principali difficoltà nel concepire a causa delle evidenti sperequazioni reddituali del nostro paese, delle farraginose procedure di adozione, della più volte massacrata legge 40, della difficoltà oggettiva di creare un nuovo nucleo famigliare privo di basi economiche solide dovute alla precarizzazione del lavoro, e nell’impossibilità di garantire, spesso, un futuro adeguato dovuto (per dirne una) all’assenza di asili nido, per non parlare della inesistente assistenza sociale e non pervenuti ammortizzatori sociali.

Al netto dell’impossibilità, poi, per alcuni nuclei famigliari di formarsi con un bagaglio standard di diritti civili, come per le coppie omosessuali, per le coppie che non vogliono riconoscersi nel nostro ordinamento, per le i nuclei famigliari composti da più persone, o per le famiglie poligame, per le difficoltà estrema dei ricongiungimenti famigliari, grazie alle leggi sull’immigrazione.

Di recente abbiamo assistito alla campagna sulla fertilità dai (nemmeno troppo) velati richiami al ventennio fascista, quantomeno come concept. E’ stato chiesto di riscoprire questa fantomatica fertilità come aspirazione alla maternità, per la patria.

Non ho più nemmeno troppa voglia di rinfocolare le aspre critiche, che ho salutato gioiosamente con un sospiro di progresso civile.

Mi permetto, però, di sottolineare come a livello giuridico ordinamentale non siamo tanto lontani dalla politica (poi abiurata) della Lorenzin, sebbene le nuove riforme avessero aperto nuove brecce… Rimaste sulla carta.

Cosa si chiede alle donne? “Di coltivare la convinzione che sia una grande fortuna essere baciate dalla naturale “capacità” di figliare – e al macero tutte le altre – e di fare figli italiani” (Come scrivono sul FattoQuotidiano)

I corpi delle donne non sono corpi di Stato. Essere donna non vuol dire essere necessariamente madre. Prima di parlare di genitorialità bisognerebbe parlare di opportunità e reddito. Trovo necessario, qualora si arrivi a ragionare di donne che scelgono di approcciarsi alla genitorialità, garantire loro di esser libere di poter diventare buoni genitori, più che solo madri. Bisognerebbe garantir loro poter avere le stesse possibilità economiche, sociali, e giuridiche dei rispettivi partner.

E’ imprenscindibile una rivisitazione dei ruoli genitoriali, prima di poter applicare effettivamente le leggi che ci sono state “concesse” dall’alto, sul congedo parentale.

L’importanza innegabile del coadiuvare i ruoli, i compiti e i doveri verso i propri figli e le proprie figlie, e non avere ruoli prestabiliti, è alla base di un nucleo famigliare solido, solidale, e solidaristico. Non esiste il ruolo della mamma, in maternità, e del papà, capo famiglia, unico lavoratore; auspico possa esistere il ruolo di chi decide che cosa, in dialogo congiunto con il proprio partner.

Congedo parentale f1Ed è su questo tessuto che reputo assolutamente conciliabile ed embrionale, la rivalutazione del congedo parentale, dei papà. Abbattere i dogmi sessisti, anche nella famiglia, può creare nuovi modelli più eguali.

E’ arrivato il momento di toccare i modelli di genere, per smantellare il modello di famiglia che ne deriva, che non a caso è un modello patriarcale; è solo attraverso un’educazione di genere che si può tendere a decostruire il maschilismo delle famiglie patriarcali, dove il padre è “capo” famiglia e come tale è fonte di reddito in casa. Distruggere questo stereotipo, porterebbe ad un maggiore incremento dei congedi parentali, e alla creazione di un tessuto sociale più forte. Se lo stigma del “daddy track”, popola e anzi si rinvigorisce sempre con maggiore linfa, nei nostri strati sociali, trovo che sia un enorme spreco, attutire il divario giuridico fra noi e gli altri paesi europei, se poi son leggi che nella pratica non trovano mai applicazione.

Decostruire i modelli di genere maschile e i modelli di genere femminile è fondamentale sia per le donne che per gli uomini. In questo modo le donne, ma anche gli uomini, si vedono riconosciute molteplici possibilità di realizzazione. Se poi il tutto fosse accompagnato da un vero welfare state, forse saremmo in grado sì, di rivalutare un progetto famigliare.

Mi ritornano in mente le parole di mio padre quando diceva:

L’unica cosa che mette in moto l’applicazione della norma è la cultura individuale del diritto”.

Beniamino Deidda.

 

p.s.: ho parlato al maschile e al femminile, parlando di congedi di paternità e maternità, per l’unica ragione che al momento in Italia non è ancora possibile far adottare i bambini e le bambine del partner, nelle famiglie omosessuali. Da parte mia non posso che reputarmi strenuamente contraria a questa negazione di diritti, ed è l’unico motivo per cui ancora mi trovo costretta a parlare, per l’ordinamento giuridico, solo di mamme e di papà. Sfortuna vuole che la situazione sia ancora così iniqua nelle famiglie tradizionali, da doverne discutere in una logica binaria maschio/femmina, ancora, e ancora, e ancora…

A. C.

N.B: dati tecnici per chi volesse approfondire la disciplina in concreto, spiegata con informazioni chiare e semplici:

https://www.forexinfo.it/Congedi-parentali-2015-novita-e-periodi-di-astensione-dal-lavoro-secondo-il

NOVITA’ CONGEDI PARENTALI 2016 Il decreto legislativo 148 del 14 settembre 2015 ha confermato anche per il 2016 i nuovi limiti temporali di fruibilità del congedo parentale da 8 a 12 anni e dei limiti temporali di indennizzo a prescindere dalle condizioni di reddito da 3 a 6 anni (introdotti dagli artt. 7, 9 e 10 del d.lgs. n.80 del 15 giugno 2015). Ricordiamo la disciplina, con le principali novità, in merito ai congedi per maternità/paternità (fonte INPS-www.inps.it).

QUANDO SPETTA Il congedo parentale compete, in costanza di rapporto di lavoro, ai genitori naturali entro i primi 12 anni di vita del bambino per un periodo complessivo tra i due non superiore a 10 mesi, aumentabili a 11 qualora il padre lavoratore si astenga dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a 3 mesi. Detto periodo complessivo può essere fruito dai genitori anche contemporaneamente. Nell’ambito del predetto limite, il diritto di astenersi dal lavoro compete: – alla madre lavoratrice dipendente, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a 6 mesi; – al padre lavoratore dipendente, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a 6 mesi, elevabile a 7, dalla nascita del figlio, se lo stesso si astiene dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a 3 mesi – al padre lavoratore dipendente, anche durante il periodo di astensione obbligatoria della madre (a decorrere dal giorno successivo al parto), e anche se la stessa non lavora. – al genitore solo (padre o madre), per un periodo continuativo o frazionato non superiore a 10 mesi; Ai lavoratori dipendenti, genitori adottivi o affidatari, il congedo parentale spetta, con le stesse modalità dei genitori naturali, e cioè entro i primi otto anni dall’ingresso del minore nella famiglia, indipendentemente dall’età del bambino all’atto dell’adozione o affidamento, e non oltre il compimento della maggiore età dello stesso.

QUANTO SPETTA I genitori naturali, possono usufruire dell’indennità per congedo parentale: – entro i primi 6 anni di età del bambino per un periodo massimo complessivo (padre e/o madre) di 6 mesi con un importo pari al 30% della retribuzione media giornaliera calcolata considerando la retribuzione del mese precedente l’inizio del periodo indennizzabile; – dai 6 anni e un giorno agli 8 anni di età del bambino, nel caso in cui i genitori non ne abbiano fruito nei primi 6 anni, o per la parte non fruita, il congedo verrà retribuito al 30% solo se il reddito individuale del genitore richiedente risulti inferiore a 2,5 volte l’importo annuo del trattamento minimo di pensione (per l’anno 2015 Euro 16.327,68); – dagli 8 anni e un giorno ai 12 anni di età del bambino il congedo non è mai indennizzato. I genitori adottivi o affidatari, possono usufruire dell’indennità per congedo parentale al 30% della retribuzione media giornaliera calcolata considerando la retribuzione del mese precedente l’inizio del periodo indennizzabile: – entro i 6 anni dall’ingresso in famiglia del minore, indipendentemente dalle condizioni di reddito del richiedente, per un periodo di congedo complessivo di sei mesi tra i due genitori; – dai 6 anni e un giorno agli 8 anni dall’ingresso in famiglia del bambino nel caso in cui i genitori non ne abbiano fruito nei primi 6 anni dall’ingresso in famiglia , o per la parte non fruita, il congedo verrà retribuito al 30% solo se il reddito individuale del genitore richiedente risulti inferiore a 2,5 volte l’importo annuo del trattamento minimo di pensione (per l’anno 2015 Euro 16.327,68); – dagli 8 anni e un giorno ai 12 anni dall’ingresso in famiglia del bambino il congedo non è mai indennizzato. Tali novità sono riferite ovviamente ai periodi di congedo parentale che finora non stati mai fruiti o a quelli eventualmente residui. Il termine di preavviso da 15 gg. è sceso a 5.