Violenza e identità di genere: l’immaginario di oggi degli uomini e delle donne di domani

Senza titolo

di Sara Colangeli, psicologa

Prevenzione della violenza, educazione al genere, corsi di affettività, formazione tra i banchi di scuola. Temi caldi e rilevanti all’interno del dibattito dell’attualità, ma chi siede sui banchi di scuola oggi? Ragazzi e ragazze bombardati da messaggi pubblicitari, attorniati da un’ampia costellazione di modelli culturali in contrasto tra loro, tempestati da immagini di corpi perfetti, illusi da promesse di sogni d’amore irrealistici. Fondamentale è conoscere il target di riferimento a cui indirizzare le iniziative ed i progetti tanto auspicati dalle realtà impegnate a realizzare un’educazione diversa per il futuro. Cosa pensano dell’amore questi ragazzi? Su cosa costruiscono le loro relazioni? Come vivono i loro corpi e le loro identità?

L’interessante analisi dell’Associazione Nondasola di Reggio Emilia pubblicata sul libro “Cosa c’entra l’amore?” (Carocci Editore) ci consente di fare un tuffo in questo mondo, illuminando proprio lo scenario entro cui le/gli adolescenti muovono i loro primi passi nel mondo delle relazioni. Si tratta di una ricerca sviluppata in tre anni di interventi nelle scuole superiori tramite questionari e focus group di approfondimento volti ad allargare le tematiche dell’analisi e calarle nella realtà del quotidiano. La ricca indagine tocca moltissimi temi, ma focalizzerei l’attenzione su tre fenomeni subdoli ed onnipresenti nel materiale offerto dai ragazzi: la connotazione positiva della gelosia all’interno della coppia, la responsabilità femminile della violenza e la funzione normativa del gruppo dei pari.

L’identificazione dell’amore con la gelosia è diffusissima tra i ragazzi.

Quest’ultima viene percepita positivamente ed agita da entrambi i sessi, sebbene nei focus siano più spesso le ragazze a nominare divieti e ricatti. Ad essere differente tra ragazzi e ragazze è l’interpretazione dei comportamenti di controllo: se per i primi riguardano limitazioni alle proprie libertà, per le seconde si tratta di dedizione ed interesse.
Ed è qui che suona il campanello di allarme.

Emerge, infatti, una sorta di “naturalità” nell’atteggiamento possessivo dell’uomo, chiamato a proteggere la partner e quindi ad un comportamento preventivo a controllante.
Spesso sono le ragazze ad attuare comportamenti autocastranti, anticipando probabili richieste del partner, evitando di recarsi in certi luoghi, di frequentare certe amiche o di vestire certi indumenti (tra le limitazioni maschili più frequenti). All’interno di tale tema emerge come la percentuale di ragazze che adottano questo tipo di comportamento di controllo sia in aumento, quasi a voler rivendicare una malsana parità in cui entrambi i partner rinunciano a una parte della propria libertà. I ragazzi e le ragazze ammettono di considerare il controllo come un pilastro su cui costruire la relazione.

Completamente incoerente rispetto a questo quadro è però la risposta più gettonata alla domanda che richiede di identificare la causa di comportamenti violenti. Il 40% dei maschi ed il 42% delle femmine indica infatti l’eccessiva gelosia. Un’incongruenza che emerge fortemente dalle discussioni dei focus group.

Un altro aspetto che traspare a più riprese nell’indagine è la presunta responsabilità femminile della violenza.
Altro dato interessante è la risposta alla domanda su cosa abbia fatto scattare la violenza. La seconda opzione scelta è “la provocazione di lei” per i ragazzi e “il mio atteggiamento provocatorio” per le ragazze. Tale concezione è in grado di innescare un meccanismo di colpa che sposta pericolosamente le responsabilità della violenza. Il dato relativo alla colpevolezza dell’azione violenta testimonia che per il 29,7% dei maschi e il 26,3% delle femmine la responsabilità è di entrambi i partner. L’interpretazione alla risposta maschile potrebbe essere quella difensiva di attenuare le proprie responsabilità di genere, mentre la risposta delle ragazze manifesta l’interiorizzazione di un certo tipo d’identità femminile. È come se le giovani donne si riconoscessero nell’immagine di femmina che induce l’uomo in tentazione, attirandolo a sé ma poi rifiutandolo, scatenando quindi la violenza. Alle ragazze viene trasmesso uno stereotipo di femminilità che deve sedurre ed attrarre e che esiste solo se guardata dall’occhio maschile. Allo stesso tempo viene loro segnalata anche la pericolosità di tali atteggiamenti, come provocanti la violenza, un’incongruenza che le ragazze non sanno come interpretare.

Ed il ruolo dei compagni? In entrambi i casi il gruppo dei pari si pone nel ruolo di “poliziotto” attento a sanzionare ogni deviazione dalla norma ed ogni tentativo di anticonformismo. Per i ragazzi si tratta di difficoltà nel proporre modalità di intendere la mascolinità diverse da quelle tradizionali a causa del controllo da parte del gruppo dei pari, che inconsapevolmente esercita una forte pressione omologante sui ragazzi rispetto alle manifestazioni di virilità. Uscire dallo stereotipo, in qualunque modo, significa rischiare l’etichetta di “diverso”, letale dal punto di vista sociale in adolescenza. La funzione normativa in
merito a ciò che è lecito e ciò che non è lecito impone ai ragazzi dimostrazioni continue della propria mascolinità.
Difficoltà anche dal fronte femminile a causa dell’utilizzo dello stesso metro di desiderabilità sfruttato dai maschi. In questo caso il giudizio feroce viene applicato principalmente al corpo, ma in seconda battuta anche ai comportamenti, che devono rientrare all’interno dell’immagine seduttiva della donna senza però sfociare nella facilità di costumi.

Ciò che emerge maggiormente dall’indagine nel suo complesso è la mancanza di una chiave interpretativa basata sulle differenze di potere tra uomini e donne, che crea confusione nella mente dei ragazzi. Emergono numerose incongruenze nella comprensione degli atteggiamenti di gelosia, così come nell’attribuzione di responsabilità e nella modalità di sviluppo di una identità personale all’interno del proprio genere. Si tratta di meccanismi striscianti che lavorano a tutti i livelli anche nella quotidianità della società adulta. Ne è un esempio l’erronea interpretazione della presenza femminile come oggetto erotico nei mass media, considerata come indecente e non come offesa alla dignità del genere femminile. Discorso analogo vale per i femminicidi consumati all’interno delle mura domestiche: casi isolati di “raptus” basati su motivazioni personali e non atti violenti perfettamente iscrivibili all’interno del contesto di gestione del potere maschile. La mancanza di strumenti di lettura culturali non permette a ragazze e ragazzi di mettere davvero in luce la questione. Ad esempio, alla domanda “per contrastare la violenza sulle donne cosa pensi di poter fare a partire da te?” la risposta “riconoscere i messaggi pubblicitari che offendono le ragazze” è stata scelta come ultima opzione, persino dopo a “imparare tecniche di difesa personale”.

Difficile per le/gli adolescenti collegare le diverse manifestazioni dei condizionamenti della cultura patriarcale, che la società stessa è interessata ad insabbiare sotto cumuli di quote rosa e slogan sulla parità di genere ormai conquistata.