Un altro finale è possibile

 

Negli ultimi giorni, una notizia ha attirato il mio interesse, inducendomi ad alcune riflessioni.

Mi riferisco alla vicenda di Vincenzina Ingrassia, la donna che nel catanese ha ucciso il marito, dopo una vita di violenze e soprusi che la donna ha raccontato di aver subito da lui: procurato aborto, ingiurie pesanti, botte, minacce con armi. La notte che è stato ucciso,  l’uomo aveva picchiato prima i cani della moglie con un bastone, poi la moglie stessa che, infine, con la stessa “arma”, ha massacrato il marito, fino ad ucciderlo.

Della storia,veramente bruttissima, mi colpisce soprattutto un passaggio:

Come riporta l’edizione di La Repubblica di Palermo, per recuperare il suo matrimonio in crisi la donna si era rivolta anche a un consultorio familiare di Biancavilla.

Cosa avranno detto a Vincezina al consultorio? Com’è possibile che una donna che chiede  aiuto per le violenze subite si ritrovi punto e a capo, trasformandosi persino in un’assassina?

Questo mi sono chiesta e così ho deciso di raccontare un paio di storie di due coraggiose, giovani donne che oggi hanno ancora la possibilità di una vita felice avanti a sé, perché, nel momento in cui hanno trovato la forza di parlare di quello che stavano vivendo, hanno trovato qualcuno che credesse alle loro parole, senza sminuirle, anzi.

Prima di tutto,  si rendono fondamentali un paio di precisazioni: i nomi, i luoghi e ogni informazione che in qualche modo possa portare a ledere la riservatezza delle persone di cui parlerò, sono stati cambiati o manipolati al fine di rendere del tutto irriconoscibili le protagoniste delle vicende, le quali però sono vere. I dettagli più “forti” delle vicende non saranno raccontati: non è mio interesse fare “pornografia della violenza”

Giulia ha una storia di violenze coniugali che dura da anni. Nel paese in cui ha vissuto fino a qualche tempo fa, si era rivolta alle Forze dell’Ordine, a seguito di liti particolarmente violente con il marito in cui lui la ingiuriava, minacciava, strattonava e picchiava. Non ottiene le risposte che spera, né si sente supportata. Le forze dell’Ordine la riaccompagnano a casa e invitano il marito a “non farlo più”.

Sperando di “poter voltare pagina”, Giulia e il marito cambiano casa, città, Regione, ma le cose non migliorano e un giorno, Giulia,dopo un litigio violentissimo, si ritrova stordita in una stanza della casa nella quale non ricordava di essere entrata, stesa a terra, pesta e dolorante.

Ma  qualcuno ha intuito cosa stava succedendo e chiama la Polizia che  accompagna Giulia al Pronto Soccorso e lì, per lei, le cose iniziano a cambiare: i poliziotti che accompagnano Giulia le credono, le promettono aiuto, la rassicurano.

Il personale del Pronto Soccorso, molto formato in materia di violenza di genere, accoglie Giulia con competenza e dolcezza, e compone il “numero unico” per le emergenze, funzionante 24 ore su 24 e attivato dal Centro Antiviolenza della città.

In breve arriva un’operatrice  del centro che instaura fin da subito una relazione empatica e rispettosa con la donna: “Ho iniziato a fidarmi – racconta Giulia – dico sempre che è stato Dio a mandare l’operatrice, perché in quel momento avevo davvero tanta, tanta paura”. Giulia ha paura del marito, ha paura che le vengano portati via i suoi bambini, non vuole tornare a casa, ma non sa dove andare. “Ho raccontato la mia  storia – continua Giulia – e sentivo di avere, finalmente, trovato la persona giusta, qualcuno che mi potesse davvero aiutare”

“Giulia era terrorizzata” – mi dice l’operatrice del Centro  – “Ma la cosa che mi colpiva di più era la sua assoluta e genuina sorpresa. Era sorpresa che qualcuno le  credesse, che qualcuno prendesse sul serio le sue parole, i suoi timori”.

L’operatrice del Centro Antiviolenza accompagna subito Giulia e i suoi figli presso una struttura di accoglienza nella quale la donna, aiutata dalla psicologa della struttura, inizia piano piano a imparare a gestire il panico e tutti i suoi timori. Nelle settimane e nei mesi successivi, si concorda con lei un percorso personalizzato di fuoriuscita dalla violenza, focalizzato su un obiettivo alla volta, grazie anche ad una presenza costante e sempre rispettosa ed empatica delle operatrici di riferimento.

Oggi Giulia, animata da un coraggio e una determinazione rari, è riuscita a cambiare città,  allontanandosi dal marito. E’ uscita dalla struttura protetta e, benché abbia davanti a sé ancora un lungo percorso legale, la sua situazione si è decisamente rasserenata, si è riusciti ad evitare il peggio (Alla domanda: “Pensi che tuo marito ti potrebbe uccidere se lo vedessi ancora?” la sua risposta,freddissima e ferma, era stata : “Sì”) e a dare a lei e ai bambini, la possibilità di essere felici davvero.

catena

La storia di Maria, invece, inizia quando la ragazza è ancora una bambina: in famiglia le impongono gravi restrizioni. Non può mai uscire di casa, se non per andare a scuola o poco altro. Quando Maria è a casa, deve provvedere alla cura della stessa, alle pulizie, al lavoro casalingo, limitazioni e imposizioni che al fratello non sono imposte. Crescendo, Maria si ribella. Esce di casa, nonostante i suoi genitori non vogliano,segue stages con la scuola, in altre città, si trova un ragazzo che alla sua famiglia non piace.

Una volta, durante una lite, Maria viene picchiata con un bastone e scappa di casa, rifugiandosi dai Carabinieri che,  però, la riaccompagnano a casa. Passa un po’ di tempo e ancora una volta, divampa una grande lite: Maria viene picchiata di nuovo e ancora scappa, ma questa volta si rifugia presso un’amica.

Le due ragazze, entrambe molto giovani, ma già maggiorenni, si confidano con un amico che fornisce loro i riferimenti del Centro Antiviolenza che, subito, fissa un primo appuntamento alla ragazza.

Emerge fin da subito che la situazione di Maria non è tale da mettere in pericolo la sua vita e che la sua prima esigenza è quella di trovare un alloggio perché l’amica non può ospitarla a lungo.

Si decide di rivolgersi ai servizi sociali del suo Comune, per chiedere un sussidio economico o una sistemazione abitativa temporanea, perché il Centro Antiviolenza non dispone di una struttura abitativa adeguata ai bisogni e alla situazione di Maria.

Purtroppo, i tempi “pubblici” sono lunghissimi, e i problemi iniziano immediatamente.  Maria può fortunatamente contare sulla vicinanza non solo del Centro Antiviolenza, ma anche di molti amici che la aiutano a sistemarsi per le prime settimane, in una piccola pensioncina.

I rapporti con i servizi sociali sono curati dall’operatrice del Centro che mi racconta: “Non pensavo di coinvolgere il consultorio dell’Asl, perché per come mi aveva raccontato Maria, la sua esigenza principale non era quella di avviare un percorso di sostegno psicologico (la ragazza era molto consapevole, forte e determinata), ma quella di avere un’abitazione, di poter stare tranquilla qualche mese,in attesa di terminare la scuola e trovare lavoro,per potersi rendere economicamente indipendente”. Nonostante questo, al Comune rispondono che è necessario,prima di avere un sostegno economico o abitativo di qualsiasi tipo dall’Ente,  non solo rivolgersi al Consultorio competente, ma anche sporgere denuncia. L’operatrice del Centro Antiviolenza si indigna: Maria è giovane e non se la sente di denunciare i genitori, non è assolutamente obbligatorio compiere un atto così forte del cui peso Maria non vuole e non riuscirebbe a caricarsi.

I tempi si allungano, ma finalmente, dopo un colloquio al Consultorio del tutto superfluo, Maria e l’operatrice del Centro Antiviolenza che non l’ha mai lasciata sola, si trovano al cospetto dell’assistente sociale del suo Comune. Maria, che fino a quel momento non aveva mai pianto, esce da quell’incontro devastata e in lacrime.

Racconta l’operatrice: “L’assistente sociale ha condotto un vero e proprio interrogatorio, con domande indelicate, e con affermazioni umilianti per la ragazza. Sembrava in discussione la veridicità del suo racconto. Maria si è sentita in colpa per non aver sporto denuncia e per non essersi mai recata al pronto soccorso”

E così, in attesa dei tempi biblici prospettati dal Comune e con la prospettiva abbastanza concreta che non si cavasse un ragno dal buco, Maria e l’operatrice del Centro “ballano da sole”.

Maria fa la sua parte  e si trova un lavoro per il fine settimana (la ragazza studia ancora) e l’operatrice del Centro  si incarica dell’alloggio, trovando, in brevissimo tempo e con una buona dose di fortuna, una camera in affitto dove Maria si trasferisce immediatamente, con lo sguardo attentissimo e vigile dell’operatrice del Centro, che vuole essere certa della bontà della sistemazione e dell’onestà del proprietario.

Adesso Maria ha un buon lavoro, vive ancora nella stessa stanza in affitto e ha la prospettiva concreta, terminati gli studi il prossimo giugno, di riuscire a trovare una sistemazione abitativa con la sua migliore amica. Periodicamente sente ancora l’operatrice del Centro. “E’ la mia eroina!” dichiara Maria.

Queste sono solo due storie,che mi hanno raccontato le protagoniste.  Non era mia intenzione né parlare delle (dis)funzioni di alcuni servizi, né incensare i Centri Antiviolenza, ma solo riflettere su quanto sia fondamentale e prioritario che una donna trovi, nel momento in cui “esce dal silenzio”, persone che credono al suo racconto e che non lo sminuiscano.

Occorre investire nei Centri Antiviolenza. Cosa succederebbe se ogni Centro non dovesse lottare con mille difficoltà economiche ogni giorno? Come sarebbe se i Centri potessero avere e gestire appartamenti e strutture protette? Come cambierebbe la vita delle donne se potessero ogni volta essere accolte presso le forze dell’ordine o i servizi pubblici da personale formato e competente in materia di violenza di genere? Quanti episodi di violenza potrebbero essere evitati, se ci fosse maggior conoscenza,diffusione e formazione delle buone prassi che i Centri hanno come loro preziosissimo bagaglio? E, se invece che gridare “al Gender!”, le scuole potessero far entrare i Centri e le loro operatrici nelle classi per parlare di rispetto, prevenzione, parità?

Immagine di Anarkikka
Immagine di Anarkikka

Ho voluto condividere con voi queste esperienze  e riflessioni perché i “raptus” e i “gesti di follia” di cui parlano i giornali sono tutt’altro che “momenti di follia”,ma sono il risultato culturale e storico del patriarcato, tanto noto quanto prevedibile e, dunque, evitabile. Basterebbe credere alle donne che denunciano e avere i mezzi e le persone per agire in modo efficace.

Un altro finale è possibile.

we can do it

2 Risposte a “Un altro finale è possibile”

  1. Grazie Chiara
    anche io ho capito che è’ molto molto superficiale sentenziare le donne come stupide; Le dinamiche Che entrano in Gioco sono Ben altre e dovrebbero tutt* andare in psicoamalisi prima di elargire sentenze e commenti!

    Ciao, bell’articolo!

I commenti sono chiusi.