Un 8 marzo più amaro del solito

Parlare di 8 marzo, ogni anno, significa ricordare la necessità ancora attuale di avere una Giornata Internazionale interamente dedicata alla donna, alle donne. Non si tratta, infatti, di una “festa”, come in Italia viene (ancora) erroneamente chiamata questa giornata. Ma si tratta di una data che serve a ricordarci quanto, ancora, siano tanti i problemi legati alla condizione femminile. Anno dopo anno.
Questo 8 marzo è una Giornata Internazionale della Donna particolarmente amara, a causa dell’anno di pandemia che abbiamo alle nostre spalle. L’emergenza sanitaria mondiale, infatti, ha acuito i problemi delle donne, su diversi fronti.

Nell’ambito della violenza di genere, i dati dell’ultimo anno ci dicono che in tutto il mondo sono drasticamente aumentati i casi di violenze, specie nell’ambito familiare, complice il lockdown necessario per far fronte alla pandemia. Nello specifico dell’Italia, durante il primo lockdown e nel periodo immediatamente successivo le telefonate ai centri antiviolenza sono aumentate del 73%. L’Istat, inoltre, ha rilevato che gli omicidi di donne, durante i primi sei mesi del 2020, sono stati il 45% del totale degli omicidi. Arrivando al 50% durante i mesi di marzo e aprile. Queste violenze sono avvenute soprattutto in ambito familiare, affettivo, e da parte soprattutto di partner/expartner.

Un altro fronte molto negativo per le donne è quello lavorativo. Già da sempre un ambito che rivela, ancora, la mancanza di una effettiva parità tra donne e uomini, il mondo del lavoro in questo ultimo anno ha rimarcato ancora di più quanto le donne sia discriminate in questo settore della società. La pandemia ha ovviamente creato una emergenza economica in tutto il mondo, colpendo sia donne che uomini, ma le prime sono state di nuovo le più danneggiate. E, nello specifico dell’Italia, questo è stato particolarmente più duro che nel resto d’Europa. Nel nostro Paese, infatti, secondo uno studio dei Consulenti del Lavoro, l’emergenza sanitaria ha portato a un calo dell’occupazione femminile che è risultato il doppio rispetto alla media UE, con 402mila posti di lavoro persi tra aprile e settembre 2020, colpendo soprattutto le lavoratrici indipendenti: nei mesi di aprile-settembre 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019, le lavoratrice autonome sono diminuite di 103.000 unità, una diminuzione praticamente il doppio di quella degli uomini. E che è la maggiore di tutto l’ambito europeo.

Non da ultimo, poi, la pandemia ha ulteriormente sovraccaricato le donne con i lavori domestici. Il remote working, ovvero il lavoro da casa, non ha infatti portato, in generale, a una redistribuzione dei ruoli nelle case italiane. Al contrario, sulle donne sono ora ricadute 15 ore settimanali in più di lavori in casa e per la famiglia. Peso che, in generale, non è ricaduto sugli uomini. Se già la situazione non era delle più rosee per le donne italiane e il loro essere ancora viste come principali responsabili della casa e della famiglia era un concetto “normale” (già prima della pandemia, due terzi dei lavori domestici era a carico delle donne, un rapporto di carico di lavoro familiare lontanissimo dalla situazione molto più equilibrata in altri Paesi europei, come Francia e Germania), ora le cose sono andate solo peggiorando.

Tutti questi aspetti legati alla pandemia (aumenti di violenza sulle donne, specie in famiglia; perdita del lavoro, soprattutto per le donne; aumento dei lavori domestici a carico delle donne) ci dimostrano quanto sia ancora molto problematica la situazione e la posizione sociale delle donne, in primis in Italia. A questo va poi aggiunto che sono proprio le donne quelle che in questo ultimo anno si stanno facendo carico delle cure altrui, mettendo da parte il loro lavoro (riducendone l’orario, sacrificandolo per la famiglia, non riuscendo a lavorare in modo efficace da remoto), come emerge dal progetto di ricerca HOWCARE. Un progetto che conferma, quindi, l’esistenza di un “conflitto” tra mondo familiare e lavorativo per le donne, a volte dovuto anche a come proprio le donne vedono famiglia e lavoro, ovvero vedendole loro stesse come due cose inconciliabili. Gli ultimi dati della World Value Survey, infatti, rivelano che il 51% delle donne italiane è d’accordo con l’affermazione “I bambini in età prescolare soffrono se la madre lavora”.

Tra le altre cose, da una ricerca commissionata da LinkedIn, in occasione proprio dell’8 marzo, sull’impatto del condizionamento sociale sulla retribuzione e la progressione della carriera femminile in tempi di Covid-19, emerge che il 44% delle donne intervistate crede di essere meno legittimate rispetto agli uomini a ottenere promozioni o aumenti di stipendio sul posto di lavoro. Le donne, quindi, rimangono indietro rispetto agli uomini sia per quanto riguarda un avanzamento di carriera che per quanto riguarda un aumento di stipendio. E rispetto ai colleghi tendono a temporeggiare decisamente più a lungo per chiedere al datore di lavoro un aumento di stipendio, dal momento in cui hanno sentito di meritarlo. Si riconferma, poi, da risultati di queste ricerca, l’annoso problema che da sempre affligge le donne, la conciliazione famiglia-lavoro. Infatti, il 20% delle intervistate ha ammesso che avere figli ha avuto un impatto sulla loro carriera. E anche quando il loro datore di lavoro ha implementato politiche family friendly, le donne hanno continuato ad essere viste come meno dedite al lavoro rispetto agli altri dipendenti. La ricerca ha infine rivelato che le donne, decisamente più degli uomini, nel corso degli anni hanno accettato lavori che richiedevano meno competenze di quelle da loro possedute. E in cui una o più volte hanno dovuto abbassare le loro aspettative di carriera. Insomma, ciò che più preoccupa di questi dati della ricerca di LinkedIn è che le donne tendano a sentirsi meno meritevoli degli uomini, meno adatte a ricoprire ruoli per cui invece avrebbero anche delle competenze maggiori; il senso di inadeguatezza che accompagna la vita delle donne; la rassegnazione a ricoprire ruoli marginali, lavori di cura o molto precari. Non a caso, come dicevamo sopra, la pandemia ha allargato questo gap, lasciando le donne molto più a casa rispetto agli uomini. Poiché le donne, molto più degli uomini, sono occupate in settori con contratti e condizioni lavorative precarie.

Il contesto che tutti questi dati, queste ricerche, queste indagini ci mostrano è un sottotesto socio-culturale da cui emerge quanto sia davvero difficile, ancora, per le donne avere una vita il più possibile “normale”. In cui essere donna non sia, a priori, un fattore solo portatore di maggiori discriminazioni. Di maggior violenza. Di maggior vulnerabilità.

Siamo nel pieno di una emergenza sanitaria, in cui le difficoltà non hanno fatto che aumentare, per tutt* noi. Ma è innegabile che le donne, ancora una volta, stiano pagando l’ennesima fattura più cara.
La società in generale,
in primis italiana, è ancora pervasa da stereotipi culturali fortemente responsabili di tutte queste limitazioni per le donne. E fortemente responsabili anche di molte limitazioni che le donne stesse si danno, ancora, specie nel mondo lavorativo e familiare.
Siamo nel 2021, arrivati a più di cento anni della prima celebrazione della Giornata Internazionale della Donna. Eppure, guardandoci intorno, noi donne abbiamo ancora tanto per cui lottare. Davvero ancora tanto. Ma non ci stancheremo mai di farlo.

Laura T e Fabiana