Da Stonewall al Gay Pride. Dov’è finita la rivoluzione?

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Quest’anno in Italia non ci sarà un unico Pride nazionale, ma le manifestazioni si moltiplicheranno e interesseranno 13 città.

Il 7 giugno è stata la volta del Roma Pride, il 19 luglio chiuderà Reggio Calabria, con il suo primo Pride. La maggior parte delle altre città da Milano a Bologna, da Torino a Venezia, hanno scelto simbolicamente il 28 Giugno.

La data del 28 giugno coincide con la giornata mondiale dell’orgoglio LGBT e con l’inizio nel 1969 dei cosiddetti “moti di Stonewall”.

Nella notte tra il 27 e il 28 Giugno 1969 si verificarono violenti scontri tra la comunità omosessuale e transessuale e la polizia di New York.

I locali gay del Greenwich Village erano abituati a ricevere “visite” da parte della polizia locale, nonostante nel 1969 i bar e i night gay fossero legali, ma quando la notte del 27 Giugno lo Stonewall Inn venne fatto oggetto di una retata da parte della polizia newyorkese, appellandosi alla mancanza da parte del bar della licenza per vendere alcolici, la resistenza si attivò.

Ci sono diverse ricostruzioni degli eventi, una delle versioni più famose è quella che fa partire dal lancio di una bottiglia contro la polizia da parte della transessuale Sylvia Rivera l’inizio degli scontri.

A prescindere dalle varianti che intrecciano mito e realtà nella ricostruzione delle vicende di Stonewall, quello che sappiamo con certezza è che da qui partì il movimento di liberazione gay.

Stonewall segnò una svolta rispetto alle rivendicazioni e alle richieste che fino a quel momento erano state portate avanti dalle associazioni omosessuali.

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Il movimento nato dai moti di Stonewall si ispirava a quello per il riconoscimento dei diritti civili dei neri, parlavano lo stesso linguaggio, chiedevano entrambi dignità per le minoranze; i/le militanti omosessuali e transessuali si inserivano anche all’interno dei movimenti antiautoritari, delle rivolte studentesche, delle contestazioni contro la guerra in Vietnam, quello che volevano era cambiare la società.

Il nuovo movimento di liberazione omosessuale non chiedeva, come avevano fatto le associazioni gay e lesbiche precedenti a Stonewall, l’assimilazione all’interno della società, chiedeva la rivoluzione totale di quella società.

Stonewall fu rivoluzione.

Da quella rivoluzione sono nati i Gay Pride, le manifestazioni dell’orgoglio omosessuale.

Ma quanto di Stonewall c’è oggi nei Pride? Quanto c’è di rivoluzione?

I Pride oggi sono finanziati da Confindustria e dagli Usa, hanno il patrocinio di Comuni e Regioni, vedono la partecipazioni di esponenti politici, hanno l’adesione di partiti, istituzioni e sindacati, molti dei quali poco e niente hanno fatto per le persone LGBTIQA, ma che spuntano fuori in queste situazioni con promesse vaghe e aleatorie, che puntualmente non manterranno.

Istituzionalizzati e concentrati nella richiesta al ribasso di diritti.

Il Roma Pride si rivolgeva a Renzi perché mantenesse fede alle posizioni espresse in campagna elettorale sul tema dei diritti civili.

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Cioè? Quelle confuse parole sulle civil partenership all’inglese che farfugliava quando veniva interrogato sulle politiche LGBT del proprio partito?

Il Pride di Milano è legato all’Expo, alla costruzione della “gay steet” quel ghetto colorato che traveste di libertà una operazione di marketing, e al progetto women for Expo, quello in cui le donne si occupano di cibo e alimentazione, relegate come sempre al ruolo di mogli, madri e casalinghe che nutrono mariti e prole.

I Pride così diventano carichi di contraddizioni.

Contraddizioni tra le legittime richieste di diritti, tra cui matrimonio e adozioni, e la necessaria istituzionalizzazione attraverso la quale si dovrebbe passare per veder riconosciuti tali diritti.

I linguaggi diventano familisti, conservatori, reazionari.

Matrimonio, figli, famiglia, una ventata di normalità, la costruzione stereotipata dell’omosessuale perbene, che è gay ma non troppo, che ha bisogno di essere normalizzato per essere assimilato o addirittura semplicemente tollerato.

Sono diversi i collettivi queer e femministi che hanno deciso di partecipare ai Pride ma con spezzoni diversificati o manifesti politici altri rispetto a quelle ufficiali.

Partecipare perché siamo un paese in cui il bullismo omofobico fa vittime giornaliere, in cui le scuole sono ostaggio di clericali che non permettono di modificare questa situazione, perché esistono persone che si riuniscono a leggere libri, solitamente orrendi, nelle varie piazze e dicono che lo fanno per la libertà di espressione, per la libertà di continuare a dire che due uomini che si baciano fanno schifo e che due donne che stanno insieme sono contro natura.

Partecipare per questi motivi e per tanti altri ma andando oltre la richiesta di assimilazione alla società, perché questa società non va bene così com’è.

Per questo c’è chi chiede che il Pride sia il luogo di intersezione delle lotte e delle rivendicazioni tra le “marginalità” escluse. Non solo gay, lesbiche, bisessuali e transessuali ma anche persone con disabilità, migranti, precari* queer, persone che non si riconoscono in nessun binarismo uomo/donna o gay/etero, tutte quelle “marginalità” che continueranno ad essere escluse perché non assimilabili allo stereotipo dell’omosessuale rispettabile che non ostenta la propria omosessualità.

Perché l’unica integrazione che oggi sembra aver ottenuto successo è quella nei consumi, dalle discoteche, alle saune gay, dalle crociere per sole donne, alle grandi multinazionali, come Amazon e Microsoft, che mettono scene da matrimoni omosessuali nei loro spot, avendo individuato un nuovo ricco bacino d’utenza.

Possiamo accontentarci del fatto che le persone omosessuali vengano prese in considerazione in quanto acquirenti di risotti da cucinare al micoonde?

Abbiamo bisogno di altre Stonewall, abbiamo bisogno di rivoluzione.