Spot gay friendly: pinkwashing e pubblicità

“Allora, Luca, qual è la sorpresa?” chiede la madre. Tagliolini e risotti da fare al microonde. Ma anche che Luca è gay, sta con Gianni. La madre gli accarezza la mano comprensiva: ovviamente lo aveva già capito.

L’ultima pubblicità Findus (GUARDA LO SPOT) è solo una delle molte comunicazioni gay friendly di aziende che evidentemente, a differenza di Barilla, non hanno intenzione di escludere dal loro mercato i consumatori omosessuali, anzi di includerli esplicitamente. Lo spot Findus ha ricevuto il plauso di molte associazioni, liete di vedere la quotidianità omosessuale inserita senza stereotipi in una comunicazione pubblicitaria.

Subito dopo anche Sammontana ha puntato sulle coppie omosessuali, inserite in un racconto corale di un’estate giovane e spensierata.

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Non si tratta di casi isolati, anzi. Sono questi gli ultimi risultati di una tendenza alla pubblicità gay friendly che parte da Ikea e lo spot che fece infuriare Giovanardi, passa da Renault e Burger King e poi arriva in Italia. C’è stato lo spot dei sughi Althea con i baci gay, poi altri meno riusciti come quello dei materassi Dorelan in cui l’omosessualità veniva raccontata impropriamente come una “scelta” che può sembrare strana agli altri.

Nel nostro Paese, uno stimolo di marketing non indifferente è arrivato proprio dalle dichiarazioni di Barilla che ha regalato un’intera fetta di consumatori ai concorrenti capaci di cavalcare una comunicazione progressista e includente. In generale però, il fenomeno risponde anche ad altre spinte economiche e comunicative, che potremmo riassumere in una universale tendenza al pinkwashing.

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Questo termine, diffuso per la prima volta dalla giornalista Sara Schulman sul New York Times nel 2011, è un neologismo che indica varie forme di marketing sociale, vale a dire dell’utilizzo di strategie e tecniche di marketing per spingere un target specifico a modificare il proprio atteggiamento nei confronti di una questione specifica.

Il pinkwashing si riferisce quindi sia alla promozione di prodotti utilizzando il fiocchetto rosa della lotta al cancro al seno, e quindi alla promozione di una femminilizzazione del bene di consumo, sia più specificatamente alla reclamizzazione della “gay friendliness” di un’azienda o un’entità politica, spesso nel tentativo di abbassare l’attenzione dagli aspetti più negativi del gruppo promosso.

Schulman usava il termine pinkwashing denunciando la cooptazione dei bianchi gay da parte delle forze politiche anti-immigrati e anti-musulmane in Europa occidentale e in Israele, e in particolare riferendosi alla strategia di Israele di occultamento della violazione dei diritti umani dei Palestinesi sotto la copertura di un’immagine di “modernità” data dalla vita gay israeliana.

Il potenziale etico di nazioni e aziende oggi è in mano esperti pubblicitari, impegnati molto più a raccontarci il brand, il marchio, che non il prodotto reclamizzato. La mitologia pubblicitaria non è più interessata a venderci un singolo bene di consumo, ma a farci affezionare alla politica dell’azienda, a fare “storytelling” dell’identità del produttore di beni. Sia questo uno Stato o un fast food.

Così abbondano spot gay friendly, ma anche dal sapore vagamente femminista.

Il marketing identifica un argomento che faccia trend, caldo, che sia la violenza sulle donne, la questione LGBTQI o il superamento dei canoni estetici artificiali, lo assimila e lo rivende, adattato alle logiche di consumo.

Prendiamo le industrie della bellezza, ad esempio, le cui pubblicità tendono a volerci convincere di avere il prodotto giusto per la nostra bellezza naturale: sembra che abbiano deciso di combattere apparentemente lo status quo, mantenendolo in realtà intatto. Nella società aumenta la consapevolezza delle donne sul mito della bellezza artificiale, così l’industria dell’estetica decide di usare queste argomentazioni a suo vantaggio. Se le consumatrici iniziassero ad accettarsi così come sono, non vorrebbero più soluzioni alle decine di problemi a cui certo possono porre rimedio, così la comunicazione pubblicitaria inizia a dire: per essere bellezze naturali, per essere voi stesse, avete bisogno del nostro prodotto.

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È ovvio che si preferirà sempre una comunicazione meno stereotipata e meno discriminante a macchiette e vaneggiamenti omofobi o sessisti. È bene però anche riconoscere dei meccanismi di comunicazione pubblicitaria per non applaudire acriticamente a operazioni di marketing che rispondono solo alle logiche di mercato, senza di certo cercare di creare nuovi spazi di manovra culturale o sociale.

La pubblicità riflette la società che ha intorno, il target di consumatori che vuole irretire, gli stereotipi che aiutano a semplificare l’efficacia (spesso solo apparente) della comunicazione.

Così se oggi delle aziende vendono grazie alla quotidianità gay, è possibile registrare un cambiamento nella percezione dell’omosessualità da parte del consumatore medio probabilmente, ma sulle identità di genere è bene ragionare più approfonditamente.

Usare una coppia gay al pari di una eterosessuale e quindi una famiglia gay come una tradizionale, vuol dire normare le diversità. In pubblicità non significa però darsi tutti sullo stesso piano, ma usare quel mix di aria progressista e piccolo choc culturale per attirare l’attenzione del consumatore.

Vuol dire dare per scontato che, in nome del consumo, si possa unire tutti i corpi e tutti i generi.
Per essere tutti “normali”, tutti rappresentati, dobbiamo consumare.

Sapere che la rappresentazione più aperta dell’omosessualità mainstream sia in mano alla pubblicità, anticipa la sensazione di essere inquadrati in nuove fette di consumo, in nuovi mercati da esplorare.
La pubblicità rappresenta sempre il mondo in maniera distorta dalla realtà. Famiglie dal sorriso cucito in faccia, luci aperte su mondi di soddisfazione estrema per un nuovo detersivo, donne nude eccitate da una marca di silicone. Sarà davvero il tema dell’omosessualità a dirci qualcosa di nuovo sulla comunicazione pubblicitaria?