Speranze di liberazione

Vi avevamo parlato del fatto che la Commissione di inchiesta sul femminicidio si era presa il compito di analizzare numerosi fascicoli (circa 1500), relativi a casi di separazioni definite “conflittuali” per carcare di capire meglio come e se i Tribunali italiani riuscissero a tutelare le donne e i loro figli minori, applicando correttamente la Convenzione di Istanbul, laddove fossero presenti denunce di abuso o maltrattamenti in famiglia.

Nei giorni scorsi, finalmente (!), è stata pubblicata l’intera relazione che sarà presentata ufficialmente il 13 maggio, ma vogliamo darne alcune anticipazioni.

(QUI il link per scaricare il pdf)

In Italia la violenza maschile contro mogli, compagne e figli non viene rilevata nel 34,7% delle cause giudiziali di separazione, mentre per quanto riguarda i procedimenti minorili sulla genitorialità siamo in presenza di violenza domestica nel 34,1% dei casi e nel 28,8% dei casi di violenza diretta su bambini e ragazzi, per l’85% agita dai padri, ma anche questi fenomeni sono “invisibili”, cioè non riconosciuti dagli operatori. Di più, nel 96% delle cause di separazione giudiziale in cui si riscontra violenza domestica, i Tribunali ordinari non ne tengono conto per decidere sull’affido dei figli, mentre i Tribunali per i minorenni nei casi in cui c’è violenza finiscono con l’affidare i minori nel 54% dei casi alla sola madre, ma con incontri per lo più liberi con il padre violento

Secondo Valeria Valente. presidente della Commissione, si tratta di un lavoro importante, perché, per la prima volta, certifica, se così possiamo dire, ufficialmente quanto lamentato da molte, troppe madri che da anni ormai cercano di far emergere quella che a buon diritto possiamo chiamare “violenza istituzionale”. Sono moltissime, infatti, le madri che si trovano a vivere i procedimenti davanti ai Tribunali civili o minorili, con enorme sofferenza.

Anche noi, dal nostro blog, con l’hashtag #giustiziaingiusta ve ne abbiamo raccontate alcune, ma il fenomeno è molto più vasto, resta spesso nascosto, non viene riconosciuto e in pochi ne parlano o ci credono. La narrazione dominante, infatti, parla sempre delle donne, in caso di separazione, in modo stereotipato e negativo: donne sanguisughe, parassite, donne malevole che allontanano i figli dai padri con il solo scopo di vendicarsi o di prosciugargli il conto in banca.

La realtà è molto molto differente e molto, molto più variegata. Le coppie separate in cui i padri si disinteressano dei figli, evitano di mantenerli, si rifanno una nuova vita, trascurando i figli sono tante, tantissime. Eppure le difficoltà delle donne separate, impoverite, costrette a barcamenarsi tra i pochi soldi, lavori precari e la gestione in solitaria dei figli non giungono mai alla ribalta. E sono, invece, la quotidianità per molte madri.

La legge 54/2006 che disciplina l’affidamento dei figli minori in caso di separazione dei coniugi ha peggiorato la situazione delle madri e dei loro bambini e non solo di quelli che subiscono violenza all’interno delle mura domestiche. Infatti fornisce agli ex compagni un eccellente strumento per annientarle, vendicarsi e ridurle a figure marginali, strappando loro quanto hanno di più caro al mondo, i loro bambini. Non dobbiamo dimenticarci mai che in Italia, il carico domestico, di cura della casa e accudimento dei figli è ancora largamente sulle spalle delle donne, e le cose dal 2020 sono solo peggiorate, a causa della pandemia.

A parlare la lingua dell’assenza di condivisione dei carichi familiari all’interno delle mura domestiche ci sono anche i dati Inps sui beneficiari dei congedi Covid: i 300 mila minori interessati sono stati presi in carico per il 79% dalle madri e per il 21% dai padri. Questo dato va letto insieme a quello dei congedi parentali: qui assistiamo a un miglioramento della quota di padri beneficiari che, nel periodo 2011-2020, è cresciuta dal 10,8 al 22,3 per cento. “Il carico di lavoro domestico e di cura- dichiara la sottosegretaria- grava ancora per il 62,8% sulle spalle delle donne nonostante la quota gestita dagli uomini sia cresciuta di 9,1 punti in dieci anni”.

E ancora:

Il tasso di occupazione femminile, dato dal rapporto tra le donne occupate e la popolazione femminile in età lavorativa (15-64 anni), è sceso al 49% dopo che nel 2019 aveva superato per la prima volta la soglia del 50% e dopo sette anni di incrementi dal valore di 46,5% registrato nel 2013.È quanto emerge dal Bilancio di genere 2021 (…) Cresce così ancora il divario tra tasso di occupazione femminile e maschile che arriva a 18,2 punti percentuali.

In questa situazione, come è facile intuire, il membro della coppia più fragile, che si impoverisce più facilmente, che risulta più facilmente ricattabile, avendo minor potere e autonomia, è la donna.

In caso di una separazione difficile, la bigenitorialità a tutti i costi, sancita dalla legge 54/2006 è uno strumento in mano a uomini egoisti che, al fine di ridurre o azzerare del tutto l’assegno posto a loro carico dal Giudice, chiedono e spesso ottengono una divisione dei figli e dei loro tempi del 50%, senza tenere in alcun conto che, spesso, questa divisione rigida del tempo dei bambini non risponde al loro reale interesse (pensiamo a bambini molto piccoli o bambini abituati a passare l’intera giornata a casa con la mamma che, improvvisamente, si trovano a vivere una settimana qui e una là). Se la madre si oppone a queste richieste, portando come motivazione una difficoltà del bambino stesso a stravolgere le sue abitudini o il fatto che il padre non si occupi del bambino, perché lo lascia alla nonna o alla nuova compagna, è ormai la prassi metterla sulla graticola, bollandola come alienante e ostativa, simbiotica, adesiva o altre espressioni simili. E’ la famigerata PAS o alienazione parentale, con tutte le sue molteplici mutazioni nei nomi, ma non nel contenuto essenziale, insinuatasi nei Tribunali, nei corsi universitari, nella formazione di troppi operatori che gravitano nella grande area della “tutela minorile”, vera macchina per far soldi che tritura e spesso inghiotte i più deboli.

Se tutto questo distorce e arreca dolore e sofferenza alle donne e ai bambini che non subiscono maltrattamenti, immaginiamo quanto grave sia la distorsione della giustizia, quando sono presenti denunce di violenza o abuso o addirittura condanne.

 La relazione della Commissione mostra che nelle perizie, pur non citando direttamente la cosiddetta PAS – alienazione parentale -, ricorre sempre lo stesso lessico: la donna viene definita alienante, simbiotica, manipolatrice, malevola, violenta, inducente conflitto di lealtà, fragile. Senza considerare che in oltre il 60% dei casi l’ascolto del minore non viene disposto. “Numerosi – scrive la Commissione – sono gli affidi ai servizi sociali, misura che appare particolarmente punitiva per i genitori e fortemente rivittimizzante per le madri, che hanno subito maltrattamenti”. Nei 36 casi emblematici portati all’attenzione della Commissione – storie in cui le donne hanno denunciato di essere state vittime di violenza o hanno denunciato i partner per abusi sui minori – a 25 madri è stata limitata la responsabilità genitoriale e i figli sono stati allontanati, applicando la PAS o teorie analoghe. I restanti casi sembrano avviati ad avere la medesima conclusione.

“La violenza denunciata dalle madri esiste in oltre il 30% dei fascicoli esaminati dalla Commissione, ma non viene letta”, spiega Valerie Valente, presidente della Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio . “Il rischio più grande è che non si applichino le tutele previste dalla Convenzione di Istanbul sulla messa in sicurezza di donne e bambini, affidando il minore all’autore della violenza – nella stragrande maggioranza il padre – e mettendo in discussione la responsabilità genitoriale della madre, ritenuta colpevole del rifiuto del figlio nei confronti del padre. Così, in nome della bigenitorialità prevista dal nostro impianto normativo (legge 54 del 2006) , il bambino viene allontanato dalla madre e resettato per costruire il rapporto con entrambi i genitori. Il tema è che nei procedimenti civili o minorili la violenza viene ignorata o derubricata a conflitto, ritenendola appannaggio esclusivo del procedimento penale”, conclude Valente.

Maria Assunta, suo figlio e gli incaricati di prelevarlo e portarlo in Casa Famiglia

E’ di oggi inoltre la notizia che è stato approvato in via definitiva un ddl sulle statistiche in tema di violenza di genere, frutto del lavoro della Commissione di inchiesta sul femminicidio in collaborazione con l’Istat.

Si tratta di un altro passo avanti importante per la piena attuazione della Convenzione di Istanbul che, nei suoi articoli, prevede anche una raccolta delle informazioni e dei dati sulla violenza maschile contro le donne, che sia ben fatta, puntuale e che serva come strumento adeguato per adottare provvedimenti sempre più efficaci per contrastarla.

Dal sito della Camera dei Deputati possiamo leggere:

L’articolato di questo provvedimento è comprensivo di 7 articoli.

Il primo incarna lo spirito di questa legge e dice: “è volta a garantire un flusso informativo adeguato per cadenza e contenuti sulla violenza di genere contro le donne al fine di progettare adeguate politiche di prevenzione e contrasto e di assicurare un effettivo monitoraggio del fenomeno”.

All’articolo 2 si tratta degli obblighi di rilevazione. L’obiettivo è sempre quello di aiutare la prevenzione e il contrasto alla violenza, considerando le violenze in tutte le sue forme, quella fisica prima di tutto, ma anche quella economica e quella psicologica, che sono le più subdole. La dipendenza economica è quella che il carnefice attua per cercare di isolare la donna, di estrapolarla dalla sua socialità, dalla sua comunità, e, una volta isolata, di lasciarla così, in uno stato di prostrazione anche mentale e psicologica.

Un altro riscontro importante è capire se le violenze avvengono alla presenza di minori. Esiste un contesto, un contesto familiare, esistono minori che, magari, rimarranno per sempre segnati da questi atti di violenza. Dunque in questo flusso di informazioni è importante anche capire come e dove si esplicitano questi atti violenti.

All’articolo 3 si prevede, poi, una relazione al Parlamento sull’attività da parte dell’Istat.

L’articolo 4 è importante perché parla delle strutture sanitarie e, soprattutto, dei pronto soccorso, luoghi di vitale importanza da cui devono essere sempre più circostanziati i dati che arrivano, luoghi dove spesso la vittima arriva frastornata e spaventata: è qui che bisogna fare in modo che si abbiano maggiori dettagli sulle tipologie delle violenze e sulle circostanze in cui queste violenze si sono verificate.

Gli articoli 5 e 6 si occupano delle rilevazioni dei Ministeri dell’Interno e della Giustizia. Sono due articoli centrali molto articolati, perché il raggiungimento degli obiettivi che ci si pone dipende moltissimo dalle attività di questi due Dicasteri.

Alla fine ci sono i centri antiviolenza e le case rifugio, che, pur mantenendo l’anonimato che copre i loro dati, sono luoghi importanti, luoghi dove le donne e le persone in difficoltà arrivano e chiedono aiuto, e sono fondamentali nella strutturazione generale del contrasto alla violenza di genere. E quindi anche da qui possono arrivare, così come dai pronto soccorso e dalle strutture sanitarie, dei dati articolati. Questi dati, naturalmente, poi vanno analizzati, differenziati e messi a sistema per poter avere un sistema ancora più efficace, snello, immediato. La velocità è importantissima nell’intervenire, lo sappiamo tutti, molte volte basta restare un po’ nell’impasse generale e si può arrivare a una situazione drammatica. Una situazione drammatica si può salvare con la celerità, con l’agilità, con la precisione. E la precisione si può avere aiutati da un’elaborazione dei dati che sia efficace e totale.

 

Ed infine, ciliegina sulla torta, è di oggi la notizia che la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittime le norme che attribuiscono ai figli il solo cognome del padre in automatico.

Ora i figli assumeranno quello di entrambi i genitori nell’ordine da loro concordato. Questa la decisione della Corte costituzionale, anticipata con un comunicato stampa, che bolla come «discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio» la regola in base al quale il cognome del padre viene attribuito di default. I giudici delle leggi passano così un colpo di spugna definitivo su una concezione patriarcale della famiglia, ora il figlio assumerà il cognome di entrambi i genitori nell’ordine da loro concordato, salvo che decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due. «In mancanza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori – si legge nella nota – resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico».

Come dicevamo in questo vecchio post, attribuire anche il cognome materno ai figli, o addirittura solo il cognome della mamma, è un atto enorme di cambiamento culturale e non solo formale, anche se la potenza del simbolo è immensa.

Vuol dire che le madri escono dalla dimensione privata, diventano un soggetto politico, pubblico. Significa dare piena cittadinanza al ruolo materno, uscire dalla logica patriarcale del “marchio” che segna il possesso della donna e dei suoi figli da parte dell’uomo.

Il “Manifesto di Rivolta Femminile” del 1970, sempre attualissimo, diceva:

Chi genera non ha la facoltà di attribuire ai figli il proprio nome: il diritto della donna è stato ambito da altri, di cui è diventato il privilegio. Ci costringono a rivendicare l’evidenza di un fatto naturale.

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Queste 3 notizie insieme, intorno alla data del 25 aprile, ci fanno sperare in un’avanzata nel cammino della liberazione delle donne dai retaggi del patriarcato, dai fascismi di oggi e di ieri che collocano ancora le donne in posizione subalterna, non riconoscendone appieno la cittadinanza e dal ritorno della patria potestas violenta che le ricatta e le rende vulnerabili in presenza di figli.

Buona liberazione a tutte!