Sempre peggio #GiornalismoDifferente

In questi ultimi giorni, le notizie di femminicidio si susseguono in maniera dolorosa e incalzante e, insieme alle brutte notizie, ci tocca leggere anche un cattivo giornalismo.

Due giorni fa, Repubblica, scrive la cronaca del femminicidio di Ana Maria Stativa, uccisa da un cliente con una pistola di quelle che si usano per uccidere i maiali. Il delitto si è consumato a casa della vittima, a Bologna.

Meno male che almeno, il fatto che l’assassino si fosse recato a casa di Ana Maria con un’arma come quella, ci ha evitato di leggere la solita, penosa scusante del “raptus”, perché, dal titolo alla chiusura, l’articolo di Repubblica somiglia più a un romanzetto di quarta categoria che a un articolo serio di giornale.

Frasi come queste, scritte in questo modo, sembrano non solo descrivere una romantica routine tra i due (“ogni sabato andava a trovarla”), ma soprattutto contribuiscono a giustificare il gesto dell’uomo che aveva paura che la donna non tornasse più da lui. E questo è tragicamente vero: chi ammazza una donna, chi compie un femminicidio non vuole, per davvero, che la vittima se ne vada, ma non perché innamorato o dispiaciuto o preoccupato (ed è qui che Repubblica sbaglia, con la sua narrazione), ma perché ha mania di controllo, ansia di possesso, desiderio di limitare la libertà della donna che vede come qualcosa di sua proprietà, da punire in caso rivendicasse una sua autonomia.

Le stesse bestialità appena commentate, tornano all’inizio dell’articolo. Ribadite e ripetute, come a suggerire uno sguardo “compassionevole” sulla condotta criminosa e maschilista dell’uomo:

Le ha puntato contro una pistola per sopprimere i maiali e l’ha ammazzata con un solo colpo alla nuca. Non voleva che andasse via, che se ne tornasse in Romania per le vacanze di Pasqua. Temeva che non sarebbe più tornata da lui. Ha confessato Francesco Serra, 55 anni, originario di Parma, ma residente a Vergato, dove viveva da solo dopo la separazione dalla moglie.

Anche il dettaglio della vita da separato dell’assassino sembra fatto apposta per evidenziare una certa simpatia per un uomo che, ci sta dicendo Repubblica è “solo, innamorato di una giovane che ha paura di non vedere più perché lei vuole tornare a trovare la famiglia durante le vacanze di Pasqua”:

La giovane prostituta, è stata assassinata dal suo cliente più affezionato, che da mesi andava da lei ogni sabato mattina.

L’apoteosi del cattivo giornalismo. Era tanto affezionato questo cliente solo e timoroso che ha pensato bene di portarsi una pistola per uccidere Ana Maria perché lei aveva il desiderio di andare a passare le vacanze in famiglia.

E, siccome repetita juvant, casomai non avessimo ben capito che Francesco Serra era un poveretto innamoratissimo e tremebondo:

Praticamente immediata la confessione: “Sono stato io, l’ho uccisa perché temevo che non sarebbe più tornata da me”. Aveva perso la testa Serra, si era invaghito della ragazza

Repubblica ce lo dice di nuovo.

Raccontare un femminicidio (anche quando lo si racconta scrivendo chiaramente che la donna è stata uccisa dopo aver architettato e bene organizzato il delitto) utilizzando parole come “affetto” e “invaghimento” non solo distorce completamente il significato di queste parole, ma contribuisce ad alimentare un immaginario tossico dell’amore (che porterebbe con sé inevitabilmente sofferenza e tragedia, gelosia e controllo), ma giustifica l’assassino, visto come vittima di una passione dolorosa e di una donna che lo faceva soffrire con la sua condotta.

La Stampa, l’8 febbraio scorso, invece, racconta una storia di stalking datata 2015, nella quale l’uomo è giunto persino a sorvolare con un aereo ultraleggero la casa della sua ex.

Leggiamo:

È finita nei peggiori dei modi questa storia d’amore, naufragata in una valanga di denunce, ripicche e colpi bassi. Non solo nei confronti della donna, ma anche verso suo figlio. Come quella volta, nell’aprile del 2015, quando il professore fu arrestato dai carabinieri di Moncalieri, al termine di un parapiglia di fronte alla scuola del ragazzo. Moglia, dopo aver pedinato in auto il figlio della sua ex, gli aveva imbrattato la vettura per dispetto, una Fiat 500 nuova fiammante, colorando con una bomboletta spray la portiera. Il ragazzo se n’era accorto e aveva cercato di fermarlo, discutendo con lui. Poco dopo erano intervenuti i militari e la situazione era degenerata. Il professore era finito in manette. Per quel danneggiamento l’insegnante è stato già condannato in primo e secondo grado. Adesso è di nuovo sotto processo, difeso dall’avvocato Bartolomeo Pettiti, per le accuse di stalking. E uno degli episodi nei capi di imputazioni, riguarda il controverso sorvolo dell’abitazione dell’ex compagna con un ultraleggero. La donna si è costituita parte civile con l’avvocato Stefano La Notte.

Come si vede dal racconto, l’uomo ha messo in atto una serie di condotte gravi e reiterate, ai danni anche del figlio della sua ex ed era anche già stato condannato.

Ma una nostra lettrice ci segnala un articolo, sempre de “La Stampa” che ha dell’incredibile.O meglio, non fa altro che dimostrare che la narrazione errata della violenza contro le donne, ha effetti gravissimi che vanno ben oltre il linguaggio.

Lo stalker era: “deluso, distrutto e innamorato” e così il PM ha chiesto una pena lieve perché “era finita una storia d’amore su cui lui aveva investito tutto”. “L’ha fatto perché innamorato”.

Quando diciamo che il linguaggio è importante, che dà forma alle cose, che incide in modo pesante nella vita reale, che contribuisce a creare o mantenere opinioni di un certo tipo, non esageriamo.

Per questo abbiamo lanciato la nostra campagna #GiornalismoDifferente, perché, a forza di leggere che lo stalking è una sorta di “corteggiamento” e che gli uomini che si macchiano di violenza contro le donne sono delusi, afflitti, innamorati e infelici, persino i PM chiedono pene lievi con le stesse giustificazioni che si leggono sempre, con effetti devastanti non solo sulla vittima di turno, ma anche sull’immaginario comune e, di conseguenza, sulla vita di tutt*.

A Pinerolo, invece, un uomo di 64 anni, ammazza a coltellate la moglie, come ci dice sempre Repubblica, già nel titolo

Lei lavorava, ma lui disoccupato la accusava di spendere troppi soldi

Lei è stata uccisa, ma, ci dicono, era colpevole: due volte. Lui era disoccupato (non è la disoccupazione che uccide!), mentre lei lavorava. Rea, quindi, di deludere le aspettative di ruolo. Non era lui che “portava a casa i soldi”, ma lei. Dunque, era un personaggio dominante (?). Non era più debole economicamente, e dunque sottomessa. E per di più, secondo lui, lei spendeva troppo. E dunque, una donna come questa, che manteneva il marito, sovvertendo i ruoli e che, per di più spendeva troppo di fronte a lui, disoccupato, si è “andata a cercare” quanto accaduto.

Le parole sono pietre, in questo caso, coltellate.

Visciglia ha confessato, “spendeva troppi soldi” ha detto, cercando di giustificare il gesto.

Ma anche Repubblica, con il suo titolo, invita a giustificare il gesto. In un Paese ancora fortemente arretrato come il nostro, in cui la cultura del possesso è ancora ben radicata, in cui donne e uomini vengono ancora raccontat* secondo vecchi stereotipi, un giornalismo come questo, ai lettori e alle lettrici disattent* e stroppo spesso analfabet* funzionali, non fa altro che dare una visione distorta e tossica dell’amore e suggerire che la vera vittima sia l’assassino, di volta in volta descritto come deluso, infelice, abbandonato, innamorato, disoccupato e sottomesso a una donna che lo fa soffrire.

Continuiamo a chiedere con forza e sempre più un #GiornalismoDifferente.