Sanzionato dal CSM il magistrato obiettore di coscienza: ma i magistrati possono essere obiettori?

Non ha rispettato la dignità della persona il magistrato di sorveglianza che, dichiarando di non ravvisarne i presupposti, ha respinto in modo abnorme la richiesta di una donna, ristretta in regime di detenzione domiciliare, di essere autorizzata ad allontanarsi dalla propria abitazione per sottoporsi ad un intervento di interruzione volontaria di gravidanza.

La richiesta, secondo il magistrato (!!!), non possedeva i presupposti di legge per essere accolta.

A nulla è valso, per fortuna – aggiungiamo noi –, che il giudice si dichiarasse, ex post, obiettore.

  • La vicenda

L’iter processuale nasce da un procedimento disciplinare conclusosi con la sanzione di una censura, comminata dal Consiglio Superiore della magistratura (CSM) nei confronti di un magistrato di sorveglianza resosi protagonista di una vicenda che ha, per noi, del surreale, e a cui ha messo, finalmente, il punto la Cassazione.

La sentenza della S.C. del 15 febbraio 2021, n. 3780, infatti, ha confermato la decisione del CSM nella proposizione di censurare la suddetta condotta del magistrato che, con il suo provvedimento di diniego, aveva gravemente offeso e danneggiato la donna istante.

Per la Corte Suprema, l’imputato, sostenendo la non sussistenza dei presupposti per accogliere la richiesta, ha, con il suo immotivato provvedimento, escluso che l’interruzione di gravidanza potesse rientrare tra le indispensabili esigenze di vita che consentono di lasciare per un periodo di tempo assolutamente contingentato e giustificato, il regime domiciliare o il carcere.

Su questo entrambe le istituzioni, la S.C. e il CSM, per fortuna, hanno concordato: la nozione di indispensabili esigenze di vita deve necessariamente essere interpretata come una tutela dei diritti fondamentali della persona e, tra questi, deve esservi necessariamente ricompresa la libertà di scelta e di autodeterminazione della donna di interrompere volontariamente la gravidanza laddove la stessa presenti i presupposti dettati dalla legge 194/1978, a tutela della sua salute fisica e psichica.

Tant’è che lo stesso Pubblico ministero, nelle sue conclusioni scritte, evidenzia come la scelta di ricorrere all’aborto, sia

un diritto personalissimo che non tollera limitazioni a causa dello stato di detenzione.

Il provvedimento di diniego emesso dal magistrato è risultato, invece, apoditticamente espresso, teso unicamente ad affermare non già che l’esigenza rappresentata non risultasse documentata, ma che le ragioni addotte a sostegno della richiesta non rientrassero tra quelle astrattamente ammesse per ottenere l’autorizzazione ad assentarsi dal proprio domicilio.

Da qui il rilievo che il provvedimento assunto, a causa della sua dogmatica (e non meglio giustificata) affermazione, costituisce un provvedimento privo di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto dei quali tale sussistenza risulti.

Tra l’altro, la stessa condotta è risultata parimenti lesiva dei doveri di cui al decreto legislativo n. 109 del 2006 creando, così, un danno ingiusto a carico della richiedente che, per effetto del provvedimento contestato, è stata costretta a rivolgersi ad un legale per la presentazione di una nuova istanza a garanzia della protezione dei propri interessi ed è stata nuovamente costretta a rinviare a data successiva (che poi è risultata prossima alla scadenza del termine di legge per effettuare l’intervento programmato) la soddisfazione di quelle fondamentali esigenze di vita, ingiustificatamente compromesse e compresse dal provvedimento contestato.

  • La decisione

Secondo il capo di imputazione tale motivazione si sarebbe basata su un’interpretazione della disposizione del codice di procedura penale data intenzionalmente e palesemente in violazione alla legge, strumentalizzata al fine di impedire alla istante di eseguire il programma di intervento. Intervento che, però, lo stesso riteneva – comunque e a prescindere – non praticabile perché contrario alla sua etica religiosa tanto da, con secondo provvedimento facente seguito alla seconda istanza della donna, rimettere il fascicolo al Presidente della sezione con la seguente motivazione

“ritenendo questo magistrato di astenersi dall’emissione del richiesto provvedimento per ragioni di coscienza e ritenendo che il diritto all’obiezione di coscienza debba essere riconosciuto anche gli appartenenti all’ordine giudiziari”.

Secondo la Suprema Corte, al contrario, e correttamente, le ragioni oggettive della richiesta presentata dall’interessata, consistenti nell’interruzione volontaria della gravidanza presso una struttura ospedaliera pubblica,indiscutibilmente rientrano tra quelle indispensabili esigenze di vita, la cui sussistenza consente l’autorizzazione ad assentarsi dal luogo della detenzione domiciliare per il tempo necessario a soddisfare alla loro realizzazione.

Ma non solo: nel provvedimento in esame non vi è alcun riferimento, neppure nella forma più sintetica, ad una carenza di adeguata documentazione probatoria dell’istanza, essendovi la sola apodittica affermazione che non si ravvisano i presupposti ex art. 284, comma 3, c.p.p..

Se ciò, dunque, non è più controverso, nell’iter logico della sentenza, qualcosa, invece, rimane assolutamente inesploso:

esiste, davvero, nel nostro ordinamento un diritto riconosciuto e tutelato all’obiezione di coscienza per gli appartenenti all’ordine giudiziario?

Se da un lato, infatti, è evidente che quando il CSM ha qualificato come illegittimo il provvedimento di diniego, ha inteso censurare il comportamento deontologicamente scorretto del magistrato, dall’altro, dalle parole della S.C., non è chiaro se, a priori, avrebbe potuto rifiutarsi di concedere l’autorizzazione in esame, appellandosi ad una asserita obiezione di coscienza.

Nessun provvedimento disciplinare, infatti, è stato preso per l’atto con il quale il magistrato rimetteva il fascicolo alla sezione per ragioni di coscienza, in vista della reiterazione della domanda.

Certo è che per il CSM, come per la Cassazione, il riferimento all’obiezione di coscienza è da considerarsi improprio.

Ciononostante, l’iniziativa andava considerata come una richiesta di astensione da parte del giudice.

E dunque per questo non censurabile.

Una pronuncia per questo aspetto, forse un po’ pavida, sebbene ineccepibile nel suo stretto iter logico, che avrebbe probabilmente potuto dir di più.

E non lo ha fatto.

Lo facciamo noi, allora, come collettivo e come blog ricordando come il testo della legge parli chiaro: è “il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie” colui al quale, ai sensi dell’art. 9, Legge 194/1978, l’ordinamento riconosce, al più, l’esercizio di un’obiezione di coscienza.

Un diritto, quello all’aborto, fortemente messo in discussione dai ripetuti e ostinati tentativi di sovraespandere il dato letterale della norma circa la possibilità di astenersi per ragioni etiche, a non operare determinate pratiche inerenti l’interruzione di gravidanza, al fine di comprimere fino a sopprimere la possibilità di scelta se e come procedere all’interruzione, prima ancora della possibilità concreta di farlo.

Un attacco, dunque, come sempre e come al solito alla possibilità di scegliere sul e del proprio corpo, quindi, e alla propria autodeterminazione, prima che un attacco, comunque sempre presente, alla legge 194/1978.

 

Il corpo è nostro, allora, ma come al solito decidono gli altri.

Anche nel 2021. In periodi storici in cui ancora molt* si permettono di considerare il femminismo un pensiero (una lotta, una pratica) superata, o superabile.

  • Al netto della disquisizione teorica, rimane comunque il danno alla salute psico-fisica subito dalla donna

Più puntuale è stata, invece, la S.C. nell’individuare il patimento di un danno ingiusto in conseguenza del diniego immotivato di autorizzazione, come nella necessità di rivolgersi ad un legale per la presentazione di una nuova istanza con l’onere di provvedere ai costi di una difesa tecnica, come nel rinvio dell’esecuzione dell’intervento programmato per altra data, in una pratica, come l’interruzione della gravidanza, in cui le tempistiche, per la legge, assumono un ruolo fondamentale. Questo secondo frangente, umanamente gravissimo, si traduce infatti (anche per il giudice disciplinare) in un concreto pregiudizio subito dall’istante nell’aver dovuto rinviare l’intervento ad una data successiva risultata, a causa degli intollerabili ritardi della magistratura, prossima alla scadenza dei termini di legge. Pregiudizio ulteriormente aggravato dalle fragili condizioni di sottoposizione ad un regime di detenzione domiciliare.

Una vicenda, questa, che ci spinge a porre ancora altre riflessioni:

se il magistrato, con la sua condotta ha di fatto ulteriormente e ingiustificatamente compromesso e messo a rischio la soddisfazione di un interesse primario per la persona coinvolta (la facoltà di ricorrere all’aborto), dall’altro la sua condotta si inserisce in una tendenza generale, assolutamente deprecabile, di, quando mancata, quando dichiaratamente professata, incapacità di guardare al fenomeno, prima ancora che alle leggi, dell’obiezione di coscienza, con le giuste lenti e i giusti equilibri.

Anche oggi, allora, ribadiamo la necessità di un equo bilanciamento tra il diritto ad essere se stessi, di potersi esprimere nel modo più conforme alla propria coscienza, all’interno di un perimetro che escluda l’utilizzo strumentale di quest’ultima sempre e solo a discapito dei diritti e delle facoltà delle donne.

L’uso distorto e perverso dell’obiezione di coscienza, la cui area è stata solertemente individuata dal legislatore degli anni 70, non può certo permettere nel 2021, l’apertura ad una nuova ipertrofia di ulteriori, misogine e distruttive, opzioni di coscienza. Opzioni non ammesse dalla legge, e ancora una volta in tema di interruzione di gravidanze e diritto all’aborto.