Riflettere a Parigi, da giovedì a domenica

e6723255-7a35-4841-b18a-2d558c08447ddi Eleonora Selvatico

Sono una studentessa svizzera e italiana dell’Università di Parigi 8 (Saint-Denis) che abita a Parigi da quasi tre anni. Sono una fra quelle persone che ha scritto “sto bene” sui social networks, una di quelle che era sulle strade di Parigi malgrado il “copri-fuoco” informale. Una di quelle persone “fortunate”, perché il caso le ha portate lontano dalla “zona rossa”, nonostante ci vivano e abbiano avuto, per qualche attimo, l’intenzione di passarci la serata.

Giovedì ero in Università. Non era una giornata “normale”, ma “eccezionale”. La filosofa Judith Butler è stata al centro di una conferenza in cui si parlava delle “vite che contano” e delle “vite che non contano”. La differenza sistematica che intercorre nei media, nelle decisioni politiche, nei nostri immaginari, nelle nostre azioni quotidiane (come: piangere le vite), e che manifesta un binomio tra quelle vite che “appaiono” come umane e quelle che “scompaiono” – le vite-fantasma, inumane -; quelle, insomma, che “non meritano d’essere vissute” e che cadono, così, fuori dallo spettro del sostegno economico-politico e sociale. In questi ultimi giorni, molti hanno già espresso l’indignazione verso la noncuranza delle vite afflitte dal terrorismo di stato occidentale – spesso chiamato: “lotta antiterroristica” – tanto a livello politico internazionale che a livello empatico personale. Alcuni hanno deciso di murare i sentimenti per prendere “decisioni razionali”: nessun’empatia né a Parigi né altrove.

libero-bastardi-islamiciNon ho deciso di scrivere per ripetere affermazioni che non portano da nessuna parte o slogan sconcertanti del tipo “Bastardi islamici”. Vorrei semplicemente provare a trovare una via di fuga da frasi e gesti che non si sono soffermati a riflettere su come rispondere eticamente agli attacchi parigini, senza farne una questione personale-morale o di Realpolitik.

La mia esperienza del 13 novembre mi sollecita a pensare una risposta che implica un agire politico e democratico; quindi, una risposta etica che né Hollande né l’estrema destra ci stanno proponendo.
Venerdì, mi trovavo in un ristorante nei pressi della tour Eiffel con un’amica. Una chiamata alle dieci di sera: “dove siete? Tornate subito a casa!”. Pensammo: “il solito allarmismo”. Tra un passo e l’altro cercammo sui nostri telefoni le ultime notizie. Un altro messaggio: un’amica scrisse d’essere a pancia a terra sul posto di lavoro, a trenta metri dalla prima sparatoria. Un proiettile ha colpito il muro del ristorante. “Non uscite questa sera!”. Senza riflettere alla tragicità politco-sociale che il gesto comporta, decidemmo di non prendere la metro.
Sconcertate, iniziammo a scrivere a casa: “Stiamo bene, non preoccupatevi, stiamo tornando a casa”. I nostri telefoni squillavano all’impazzata: ognuno aveva un consiglio su cosa fare, come muoversi, dove andare. “Allontanatevi dalle vie principali”, “Non camminate in strada”, “Entrate in un bar”, “Evitate di raggrupparvi”, “Camminate lungo la Senna”, “Non passate sotto i tunnel”, “Prendete un taxi”, “Domandate alla gente un posto per dormire”. I nostri corpi si muovevano nella notte parigina, lungo i monumenti di pietra imponenti: una trentina di ambulanze sfrecciarono accanto a noi, fiancheggiate da diverse auto della polizia. Pochi taxi, tante luci rosse. Arrivammo a Les Halles e i messaggi continuarono: “Attaque aux Halles”. “Mamma, puoi per favore controllare se è vero?” “Si, dicono di si, ma tu dove sei?” “Sto tornando a casa” “Dove andiamo?”. Le domande erano tante, ma il panico arrivò soprattutto perché ci furono troppe risposte. Mi accorsi della nostra vulnerabilità, lì, in quel momento: da dove sarebbero arrivati? Passeranno per questa strada? Indietreggiammo, ma i nostri passi percorrevano distanze troppe piccole per poterci portare via, per metterci fisicamente e, soprattutto, psicologicamente in salvo. Cercammo disperatamente un taxi. Scendemmo ai bordi della Senna, arrivammo a Bercy. Evitammo il ponte e ci trovammo, di nuovo, sulla strada. Tentammo di fermare le automobili che sfrecciavano ad alta velocità sulle strade quasi deserte, ma nessuno ci considerò.

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Il percorso di Eleonora

Stop, corsa: quattro ragazzi risposero al nostro sgomento con proposte sessuali. Infine, a poche centinaia di metri da casa, inseguimmo due piccole luci verdi con le mani levate: “Si fermi! Si fermi!”. Pagammo il taxi e c’infilammo dietro le transenne e le file d’ambulanze militarizzate per giungere, finalmente, a casa.
Due tazze di camomilla e subito accendemmo il computer. Charlie ci aveva già socializzate alla televisione in diretta, anche se l’identificazione con le vittime non era equiparabile e di così forte impatto. A esperienza vissuta, credo che attacco-terroristico-parigi-13-novembre-2015-265313.660x368sia opportuno dire che “venerdì 13” è stata una carneficina di massa indiscriminata: ognuno di noi è cosciente che avrebbe potuto trovarsi al bar, al ristorante, nelle strade, allo stadio o al concerto; forse, meno probabilmente, nella sede di Charlie Hebdo o nei panni di un “giornalista radicale”.
È l’una del mattino, e fino alle tre e mezza non riuscimmo a spegnere le nostre orecchie e a chiudere i nostri occhi. Uno dopo l’altro i nostri amici e conoscenti pubblicavano su facebook di “stare bene”. Sospiri. Smentita la notizia dell’attacco a Les Halles. Un’amica c’informò che il fratello, che lavorava al Bataclan, “sta bene: il proiettile ha oltrepassato la gamba; è in ospedale; sta bene”. L’altra amica ci comunicò che la polizia l’aveva lasciata uscire dal ristorante, è tutt’ora scioccata: “la gente entrava per rifugiarsi; sentimmo gli spari; nessuno sapeva quando sarebbe finito; dovevamo nascondere le informazioni ai clienti per non farli entrare nel panico; fornimmo teli per coprire i cadaveri”.
Sabato mattina realizzammo che tante persone avevano visto sparare ad altezza uomo sulle teste delle persone, sui corpi – al loro fianco – sdraiati, corpi che si sono loro accasciati sopra. Giovani che hanno trascinato feriti su delle strade che già avevano percorso e che ancora percorreranno; gente che, presa dal panico, ha camminato sopra altra gente, s’è involontariamente e volontariamente protetta dietro ad altri; persone che hanno gettato teli dai propri appartamenti per coprire dei corpi morti, immersi nel proprio sangue che è penetrato, lasciando tracce, nel cemento. Sabato mattina capimmo che la paralisi sarebbe arrivata alle soglie delle nostre porte di casa, nell’attimo in cui avremmo dubitato a prendere la metro, a radunarci per una manifestazione o in un teatro, quando avremmo fatto dei nostri gesti quotidiani un’interdizione. Una forma d’indignazione inizia a prendere il sopravvento: lo “stato d’emergenza”, sebbene temporaneo, è stato dichiarato da un presidente che sembra così diventare un generale dell’esercito. La divisione tra Stato ed esercito sembra essere svanita nelle politiche di sicurezza: “Questa è una guerra”.

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La torre Unicredit di Milano

Una guerra che dura da tantissimo tempo, una guerra tecnologica, una guerra che risuona nelle pratiche coloniali e una guerra che comporta sempre più la militarizzazione della polizia, la riduzione dello spazio di libertà e la lotta contro l’islam. Le grandi torri falliche delle capitali occidentali s’illuminano riproducendo i colori di una bandiera che fa dei cittadini degli esseri sacri, sacrificabili. “Liberté, Egalité, Fraternité”; è Obama che pronuncia queste parole. Perché i Francesi – e tutte le altre persone dalle varie identità nazionali – hanno visto la loro Libertà restringersi, privati della possibilità di riunirsi. Alcuni tra i parigini e i cittadini del mondo sentono la pressione di dover sconfessare il loro presunto sostegno agli attacchi subiti: né Uguali né Fratelli, tantomeno sorelle.
Domenica, il sole splende nel cielo. Fa caldo e questa è un’occasione per uscire. Ci abbracciamo tra i tavolini dei ristoranti. Nella metro, sotto la Place de la République, il panico: persone entrano di corsa, “un nuovo attacco!”. Allarmismo generale. Ancora una volta si chiama a casa: “cosa succede? È vero che ci sono in corso dei nuovi attacchi? Nôtre Dame, Bastille, République?”. A casa, scopriamo che sono “solo” petardi.

 

Da tre giorni molte persone hanno provato, empaticamente o direttamente, la vulnerabilità dell’essere umano. In quanto corpi umani, ci troviamo sempre fuori da noi stessi, sempre presi in relazioni con altri – altri che spesso neanche conosciamo. La nostra corporalità ci espone alle ferite e alle carezze, i nostri corpi, sempre aperti all’altro, ci indicano la necessità di rispondere eticamente. In questi giorni abbiamo sentito d’essere vulnerabili, d’essere in condizione di “non sapere cosa fare” per mettere i nostri corpi al sicuro e per rivendicare, di fronte alla violenza, un diritto ad avere una vita che merita d’essere vissuta. Ho letto testimonianze di turisti che volevano andare via, emigrare, da Parigi, nonostante il vigipirate e il plan rouge alpha. Questi avvenimenti dovrebbero riempire le pagine dei social networks con più “Parigi in solidarietà con Beirut” e “Benvenuti immigrati” e meno bandiere francesi. “La Francia è vulnerabile”: riconoscerlo veramente implica degli spostamenti etici-politici importanti. Hollande personifica oggi la Nation a una “vittima innocente”, depoliticizzandola, unendola, cercando di mettere un cerotto su quella ferita che rende visibile, invece, la sua apertura esistenziale. Il governo francese sta negando ciò, pensando così di poter sferrare qualche azione violenta e unilaterale da soggetto solipsistico. La Francia, come tutti i paesi e i cittadini di questo mondo, vivono in relazione con gli altri.

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La domanda che ci poniamo allora è: che tipo di relazione possiamo oggi pensare, dopo i fatti avvenuti ed esperimentati? Ciò che più ci dovrebbe preoccupare è la dichiarazione violenta, con la forza e le armi, dell’integrità di questa Francia che porta con sé lo spettro delle reazioni americane post 9/11: “O siete con noi o contro di noi”. Mi pare inutile riprendere a parole quella vignetta in cui l’Isis, “imbenzinato” da Hollande, accoltella la Francia. E non mi soffermerò nemmeno a spiegare perché opporsi al terrorismo di stato non equivale ad assolvere il terrorismo dell’Isis – e viceversa. Io rifiuto politicamente la dottrina dell’amico e del nemico, del “noi” e del “loro”, perché questa logica non ci porterà, come continua a dimostrare, a un modo sostenibile e democratico di coabitare la terra; dove, democrazia non è sinonimo di “andare tutti d’amore e d’accordo”. Se smettessimo, quindi, di parlare di “terrorismo” e cominciassimo invece a pensare all’“orrorismo”, come suggerisce Adriana Cavarero (Orrorismo. Ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, 2007), cambieremmo, innanzitutto, quelle distinzioni tra le “vite che contano” e quelle “che non contano” di cui ha discusso pure Judith Butler (Vite precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo, Booklet Milano, 2004).
Se esperimentato, il “terrorismo”, si rivela essere un’esperienza d’orrore: le vite sono, nel terrorismo tanto degli stati occidentali che dell’Isis, strumentalizzate per imporre ordini economici-politici disastrosi come ultimamente ci è dato da vedere, riflettere attraverso questo termine, quindi, non potrà che alimentare una logica bellica, escludendo, ai privilegi del soldato, le percezioni e il mondo del civile.

I numerosi video pubblicati in seguito agli attacchi a Parigi e le stragi che leggiamo quotidianamente (e, forse, troppo poco empaticamente) sui giornali ci lasciano paralizzati. L’orrore paralizza, il terrore ci porta alla fuga. I popoli, i civili, la gente comune si sente inerme, indifesa, vulnerabile: io stessa – in minima misura, probabilmente – non sapevo dove andare nei pressi di Les Halles, non sapevo dove mettere il mio corpo per proteggerlo.

Pensare politicamente a una coabitazione del mondo è un gesto politico che manca ancora alla politique des politiciens tanto internazionale che nazionale. Non possiamo decidere con chi coabitare la terra, e chi lo fa, commette un atto di genocidio; “spazzare via la Siria” o “lasciarla spazzare via” non è una soluzione (Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, 2013). Siamo allora tutti responsabili di quel che è successo e di quel che succederà. Non si tratta, in questa sede, di pensare una responsabilità morale: non stiamo cercando chi ha fatto chi a cosa, chi ha il merito o chi ne ha le capacità. Noi cittadini siamo responsabili eticamente e politicamente di rispondere a quest’appello di solidarietà, attraverso questa empatia che venerdì abbiamo chiamato “Nous sommes Paris” – più che “Je”.

Non ho nessuna soluzione prêt-à-porter (come quelle “politiche antiterroriste” e “securitarie” che ci hanno più volte mostrato incrementare, più che distruggere, la violenza; pensiamo, per esempio, alla chiusura delle frontiere o alle “vite che non contano” che galleggiano ancora sul Mediterraneo) contro l’orrore e il terrore, ma mi sentivo in questi giorni interpellata a dire a grandi lettere che, a me, queste politiche non vanno bene, che, io, questa violenza, che alimenta la violenza trascinando con sé tutte le persone in un turbine d’orrore senza via d’uscita, non la voglio. Come ha scritto ieri Gino Strada: “L’unico modo per far finire la violenza è smettere di usarla”.