Ravensbrück: l’inferno delle donne

La storia di Ravensbrück è la storia di un campo di concentramento –dimenticato dai più e dalla storia– destinato, almeno nominalmente, alla rieducazione delle prigioniere, e trasformato poi in campo di sterminio dove morirono novantaduemila donne.

7439174418_40a7415d4b

Le porte di Ravensbrück si aprirono il 15 maggio del 1939 e, a differenza della maggior parte dei campi di concentramento, era destinato perlopiù alle donne.

Ma al suo interno non erano presenti solo ebree che, infatti, costituivano il 15% circa delle internate. Il progetto di Hitler era quello di eliminare le donne non conformi, giudicate inutili dal regime: oppositrici politiche, lesbiche, rom, prostitute, disabili e donne con problemi psichici e sociali.

2520211665_76eca2e079

Sin da subito vennero internate duemila donne. Le prime deportate furono: comuniste, socialdemocratiche, antinaziste –seppur “ariane”– accusate del grave reato di aver violato alcune leggi sulla “purezza razziale”, avendo avuto rapporti sessuali con una “razza” inferiore a quella tedesca.

Lo scopo del campo, all’inizio, è quello di rieducare le antinaziste. La rieducazione si otteneva, secondo loro, attraverso ordine, disciplina, pulizia e lavoro, che diventano i primi strumenti di tortura per le deportate.

Ravensbrück le giornate iniziavano con il fischio sinistro della sirena alle quattro del mattino e terminavano alle diciotto, dopo quattordici interminabili ore di duro lavoro, fame, angherie e atroci punizioni. I turni erano massacranti e alienanti. Mezz’ora di tempo per scendere dal letto, vestirsi di stracci, rifare il letto alla perfezione secondo il regolamento (altrimenti erano guai –e spesso la vita era appesa a un filo, anche solo per sciocchezze simili). Poi sùbito in coda alla latrina, schierandosi davanti al blocco per l’appello mattutino.

 

Ravensbrück, Konzentrationslager

In piedi per ore e ore, in posizione di attenti, sotto la pioggia, la neve, senza muoversi, né lamentarsi, impossibilitate anche di coprirsi dal freddo. In quelle zone le temperature scendevano di parecchi gradi sotto lo zero, e dopo qualche minuto restare anche solo in piedi diventava un’impresa impossibile.

Questo è ciò che toccava alle donne più forti fisicamente, perché le più gracili venivano immediatamente sterminate.

Ad altre ancora invece aspettò un’altra, amara, sorte: furono impiegate nei bordelli interni ai campi di concentramento.

Per disposizione delle SS di Heinrich Himmler, Ravensbrück fornì tutti i principali lager, escluso quello di Auschwitz, di ragazze da impiegare nei bordelli interni ai campi di concentramento con l’intento di incrementarne la produttività. Ai suddetti bordelli avevano accesso: il personale di guardia al campo, gli internati criminali comuni (contraddistinti dal triangolo verde) e, più in generale, i prominenti di razza “ariana”.

Molte donne si offrirono volontarie per sfuggire alle terribili condizioni del campo.

Le prostitute impiegate nei bordelli dei campi ricevevano qualche beneficio in più rispetto alle altre donne che lavoravano nei capannoni delle fabbriche o fuori, al freddo, a fare lavori spesso inutili –come, ad esempio, trascinare enormi sassi da una parte all’altra del campo per poi risistemarli come prima.

Le donne che si prostituivano nei bordelli potevano riposare la mattina, avevano giorni liberi, ricevevano vestiti e cibo, potevano lavarsi e venivano generalmente trattate meglio; ma la maggior parte di esse tornarono a Ravensbrück dopo pochi mesi affette da malattie veneree.

Il paradosso risiedeva nell’internare prostitute per rieducarle, per poi impiegarle come prostitute nei bordelli dei campi di concentramento. Una delle tante, stupide, contraddizioni dei nazisti.

A Ravensbrück non c’era molta scelta e, come in tutti i campi di concentramento, si poteva morire per un sì o per no, per uno sguardo, per un gesto considerato oltraggioso o sbagliato, per un sospiro di troppo.

[…] tutte le volte che avverto l’odore del grasso che cola e frigge sulla brace sento odore di Ravensbrück.

<< Erano gli anni della Costituente e del voto alle donne, ma erano anche gli anni bui della restaurazione, del “tutto come prima”, della continuità con lo Stato fascista, con la sua burocrazia. I pochi partigiani e deportati costituivano un neo, un accidente nella massa compatta dei conformisti sempre pronti a inchinarsi alle circolari e alle indicazioni ministeriali. Erano anni tremendi, quando bastava cercare di raccontare qualcosa, squarciare il velo dell’oblio sui massacri dei nazisti e dei fascisti, per sentirsi risponder, soprattutto nella scuola, che non era vero niente, che era tutta propaganda comunista. Erano gli anni dei comizi elettorali dai pulpiti delle chiese e dei manifesti del “Candido” con lo slogan “madre ricorda tuo figlio”: riproducevano un figlio aggrappato al filo spinato dei Lager russi, ma non facevano cenno ai lager tedeschi, alle camere a gas, ai morti nei Lager “tutti ebrei e comunisti!” […]
Non sarà più possibile liquidare i discorsi sull’Olocausto dicendo: “C’erano anche le donne e i bambini”. Chi vuole discutere sull’argomento dovrà fermarsi e porsi alcune domande: <<Chi erano quelle donne, che cosa ha voluto dire arrivare nei Lager con i figli, portare avanti una gravidanza in Lager, partorire in Lager al buio, aiutate soltanto dalla pietà delle compagne che a rischio della vita, in quel mondo di morte, sentivano il bisogno di aiutare le altre per essere ancora donne, non numeri, non pezzi, Stücke […]
Abbiamo ascoltato la figlia di una deportata, che ha parlato per tutti i figli delle deportate, delle difficoltà riscontrate nell’avvicinarsi all’esperienza della madre, perché una madre deportata è cosa diversa da una madre comune, con quel suo passato di incubo che deve essere compreso e annullato per non coinvolgere e turbare l’infanzia serena a cui tutti i bambini hanno diritto.

Abbiamo sentito da una parte quanto sia stato difficile raccogliere, dopo tanti anni, le testimonianze delle deportate italiane che per tanti anni si erano tenute dentro la loro storia, ma abbiamo ascoltato anche la memoria di quante, nell’arco di cinquant’anni, hanno parlato, anche quando avevano contro la scuola, i Provveditori, i Direttori, la stampa, la televisione e tutti quelli che ci definivano “Università dell’odio”, perché raccontavamo ai giovani la nostra storia. Avere avuto la voglia di continuare a testimoniare, aver sentito questo dovere, questo bisogno […] per noi deportate rappresenta la tappa più importante nella realizzazione di quell’impegno assunto, cinquant’anni fa, con le compagne che non hanno avuto come noi la fortuna di tornare […]

[Dal libro “La deportazione femminile nei lager nazisti” di Lidia Beccaria Rolfi]

 

“Credo che sia comune a tutte noi che siamo state nei campi di sterminio il non voler ricordare quello che abbiamo vissuto lassù. Non so se non vogliamo ricordare perché il ricordare ci fa male oppure perché pensiamo che sia particolarmente inutile anche per gli altri, per il semplice motivo che gli altri non possono capire.

Chiunque può parlare, può scrivere della deportazione, ma le parole non possono esprimere chiaramente quello che noi abbiamo patito…

… è talmente doloroso quello che noi abbiamo passato. Con il rifiuto di ricordare è quasi come se ci salvaguardassimo. Perché l’equilibrio psichico che noi poco per volta, con grande fatica, siamo riuscite ad ottenere, si fa presto a perderlo di nuovo […] ”  [Bianca Paganini Mori arrestata e deportata a Ravensbrück, militante in “Giustizia e Libertà” ]

Quei giorni sembrano ormai lontani, sfumati nella memoria, attutiti. Purtroppo, come sosteneva Karl Marx: “La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa

 

Novembre 2014, consigliera comunale di Motta Visconti pubblica questa frase, contro i rom, sul suo profilo facebook:

“Le telecamere servono per punire tutti ‘sti bastardi! Comunque niente gattabuia, ci vorrebbero i forni…metto a disposizione la mia taverna. Se vedete del fumo strano che esce dal tetto non vi preoccupate”.

La consigliera non si dimette, né si scusa ma anzi afferma di non essere razzista e di aver «scherzato con leggerezza». Per difendersi ha spiegato: «È stato lo sfogo di un momento».

 

A marzo dello scorso anno, a Roma, sulla vetrina di una panetteria del quartiere Tuscolano, nella periferia sud-orientale, compare un cartello scritto a mano: “E’ severamente vietato l’ingresso agli zingari, anche davanti al negozio”.

index

Lo scorso aprile, in una delle tante crociate omofobe, davanti al liceo Giulio Cesare di Roma, i militanti di Lotta Studentesca srotolono questo striscione, accompagnato da croci celtiche.

giulio_cesare_protesta

Roma, novembre 2014, esponenti di Blocco Studentesco hanno manifestato impedendo ad alcuni bambini rom di entrare a scuola, creando anche una situazione di panico e paura.

protesta-blocco

Roma, qualche giorno fa. Una scritta omofoba e feroce sulla recinzione di una scuola: «Gay al rogo». A pochi metri di distanza un tappeto di svastiche, croci celtiche e quel nome che si ripete con lo spray nero: Hitler.

10942433_10152964104459034_5517603353837152181_n

 

Altre fonti: wikipedia, redattore sociale, travasamento

2 Risposte a “Ravensbrück: l’inferno delle donne”

  1. Mi è piaciuto molto questo articolo. Naturalmente ricordare lo sterminio degli ebrei è importantissimo, però si dimenticano sempre tutti di quello che hanno dovuto subire gli anarchici, i rom, gli zingari, i comunisti, gli omosessuali, i malati mentali… Leggendo mi è tornato in mente che perfino Primo Levi in “Se questo è un uomo” dà indicazioni sbagliate in merito al bordello del campo, pochissime notizie e per nulla precise spingendomi a cercare documentazione per mio conto e ritrovandomi sempre con poche notizie per nulla precise.
    In ogni caso, quello che sta succedendo recentemente dimostra che all’attivo l’interesse per i contenuti della Giornata della Memoria è “fottesega”.

    1. credo che quando si parla della Giornata della Memoria si pensi a tutti coloro che sono stati nei campi di sterminio. Non potrebbe essere altrimenti,

I commenti sono chiusi.