Perchè “The Perfect Woman” non è niente di nuovo ( o di buono )

Gira in rete la nuova campagna pubblicitaria “The Perfect Woman” di acqua Vitasnella.
E’ capitato di incrociarla condivisa su decine di bacheche social, anche da femministe e persone interessate alle tematiche di genere, convinte che si trattasse di un esempio di pubblicità giusta, etica.

Ci sono alcune cose che sono dure a morire, anche nelle persone più colte e preparate: una di queste è l’essere manipolabili dal marketing. L’altra può essere il piacere che la stessa pubblicità induce in una determinata fascia della popolazione nel far sì che si senta parte di un target preciso, con il resto del quale può costituire una comunità, spesso virtuale, con cui condividere l’esperienza di consumo in cui si riconosce. Come, per l’appunto, su una bacheca di Facebook.

E per un momento, ecco che il marketing vince su qualsiasi spirito critico.

Lo spot ci presenta una ragazza dalle fattezze comuni, molto diversa dalle modelle che solitamente fanno da testimonial pubblicitarie ( comprese quelle usate finora proprio da Vitasnella ).
Questa ragazza ci racconta che, nella sua vita, si è sentita dire di continuo, da tutti, come doveva essere: più magra, con il seno più grande, il naso più piccolo. Così anche lei si è convinta di non andare bene, di essere sbagliata.
The Perfect Woman – Live 3D mapping experiment” costituisce il resto dello spot: otto sconosciuti mappano in 3D la ragazza, in una specie di photoshop dal vivo, modificandola secondo il proprio gusto. E lei cambia, muta, sotto le loro mani, sotto le decisioni di tutti tranne la sua.
Finché non decide di ribellarsi e di riprendersi, nel finale, la sua bellezza naturale, il suo essere già perfetta così com’è. Lo slogan “Non lasciare che nessuno ti dica come devi essere” e  l’hashtag “#MeStessaAlMeglio” coronano il tutto.

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“Il tuo corpo sarà l’unica cosa che ti piacerà indossare”, una precedente pubblicità Vitasnella. Quando andavano ancora per la maggiore le magre ignude.

I motivi per cui questo spot è piaciuto a molte sono semplici: finalmente una bellezza vera, non stereotipata come quella delle solite modelle, finalmente una pubblicità per donne che lancia un messaggio positivo circa la femminilità, finalmente un marchio che si distingue dagli altri e non è sessista.

I motivi per cui questo spot è semplicemente l’altra faccia della medaglia di un problema socio-economico che molte fingono di ignorare sono più complessi da spiegare.
Ma vale la pena tentare. 

 

Prima di tutto, non c’è niente di nuovo nella campagna Vitasnella, che si inserisce in pieno in una tendenza pubblicitaria ( ne avevo parlato  qui ) che sfrutta come principale sponsor per i propri prodotti la cosiddetta “bellezza vera” delle donne:

Sempre più aziende scelgono per la loro pubblicità “donne vere” come modelle, dichiarando di non usare photoshop per le foto di intimo oppure con spot mirati a spingere le donne a essere se stesse. Cosa che potranno fare sicuramente acquistando il prodotto reclamizzato. 
La libertà di non sentire il peso degli stereotipi estetici è stata a lungo ribadita dal femminismo, lo è tutt’ora.
Ed esattamente come per tante tematiche di genere che progressivamente sono diventate ( per fortuna ) di più ampia diffusione e ( purtroppo ) quasi “di costume”, relegate a fenomeno di moda e quindi allontanate dalla politica e dalla sua progettualità, il marketing aziendale ha capito di poterne trarre un vantaggio pubblicitario.

Volete essere voi stesse? Benissimo: comprate questo shampoo che celebra la bellezza naturale e ci riuscirete. Allo stesso modo, una celebrità che posa senza trucco per una rivista o che, meglio, mette dei selfie struccata su twitter gioca la stessa carta.

Quando il femminismo diventa una strategia di marketing non solo perde ovviamente tutta la sua potenzialità rivoluzionaria, ma purtroppo diventa “trend” e quindi moda spendibile anche dalle multinazionali meno interessate alla parità di genere.
Essere un “trend”, una moda, implica che quel tema sta attraversando una parabola, ora è “in voga” a breve non lo sarà più. Come i pantaloni a zampa e la macarena.

Pinkwashing.

Termine diffuso per la prima volta dalla giornalista Sara Schulman sul New York Times nel 2011, è un neologismo che indica varie forme di marketing sociale, vale a dire dell’utilizzo di strategie e tecniche di marketing per spingere un target specifico a modificare il proprio atteggiamento nei confronti di una questione specifica.

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Crackers e femminilizzazione: come dall’estetista, lo snack evidentemente per donne e ovviamente con poche calorie

Il pinkwashing si riferisce quindi sia alla promozione di una femminilizzazione del bene di consumo ( il fiocchetto rosa della lotta al cancro al seno ), sia alla reclamizzazione della “gay friendliness” di un’azienda o un’entità politica, spesso nel tentativo di abbassare l’attenzione dagli aspetti più negativi del gruppo promosso.

Il potenziale etico di nazioni e aziende oggi è in mano esperti pubblicitari, impegnati molto più a raccontarci il brand, il marchio, che non il prodotto reclamizzato. La mitologia pubblicitaria non è più interessata a venderci un singolo bene di consumo, ma a farci affezionare alla politica dell’azienda, a fare “storytelling” dell’identità del produttore di beni. Sia questo uno Stato o un fast food.

La pubblicità non vende un prodottoma ci vende la possibilità di partecipare all’esperienza-oggetto, all’esperienza di possederlo, ma anche di prenderne in prestito l’identità. Così, che si tratti di un paio di scarpe o di un rossetto, ciò che la pubblicità ci racconta è come sarà la nostra vita con quelli indosso, perché averli ci renderà partecipi di un’esperienza migliore di quella offerta dalla concorrenza.

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I diritti lgbt aiutano a vendere la guerra, l’antisessismo aiuta a vendere l’acqua. #Pinkwashing ovunque!

 

Vitasnella prende una ragazza “normale”, usa delle tematiche dal sapore vagamente femminista ( o comunque anti stereotipi, anti sessiste ) e parla a un target che può immedesimarsi in quella donna e nelle pressioni che subisce e che può essere parte dell’esperienza liberatoria di bere dalla sua stessa bottiglietta.

E così nulla importa della speculazione sulle tematiche di genere che la pubblicità continua a fare, nulla vale riflettere sulle strategie di marketing simili a quelle magari criticate  in altre circostanze e men che meno serve far presente che la pubblicità non ha alcun ruolo sociale nel mondo della comunicazione mediatica e dunque se ne acquisisce uno il problema è a monte, nella sbagliata produzione e fruizione del mezzo pubblicitario.

Tutto ciò non serve più dirlo perchè tutte vogliono bere dalla bottiglietta di quella ragazza che grazie all’acqua Vitasnella si è emancipata dai suoi complessi.

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Pubblicità Vitasnella: la modella si controlla allo specchio, è magra, grazie all’acqua che elimina l’acqua. Cambio di rotta radicale per la pubblicità del marchio?

Non importa nemmeno se l’acqua che ti fa sentire bella si chiama Vitasnellae di per sé richiama quindi a un immaginario estetico molto preciso – o se il fatto di essere rivolta solo a un pubblico femminile è dato dalle sue capacità diuretiche e dunque dimagranti – fattore importante esclusivamente per le donne.

Questa volta la perplessità non va ( solo ) alla pubblicità, o all’azienda, che di per sè insegue profitto e si inserisce in una moda quasi ormai superata, ma va a tutte le donne che trovano un passo in avanti questa campagna pubblicitaria.
Cosa c’entra la pubblicità di un’acqua con la questione di genere?
Essere contro gli stereotipi non dovrebbe rendere possibile riconoscere immediatamente un meccanismo altrettanto stereotipato di comunicazione pubblicitaria?
Quando conquisteremo gli strumenti per non venderci alla retorica femminilista al prezzo di una bottiglietta d’acqua?
Davvero non è possibile spostare l’asticella del ragionamento sulla comunicazione pubblicitaria un po’ più su di “no a tette e culi”, “sì donne vere”?

La pubblicità non rispecchia la realtà, ma asseconda l’opinione e il gusto della fascia più ampia di consumatori, in questo caso consumatrici, su un certo target. “The Perfect Woman” non è dunque segno di progresso o miglioramento, è semplicemente uno spot che asseconda il pensiero di coloro a cui vuole vendere il proprio prodotto. Ed evidentemente ci riesce. E quando il “trend” cambierà dovremo di nuovo indignarci tutte per le sexy bevitrici d’acqua degli spot, di nuovo tutte allibite per lo stesso meccanismo economico che adesso molte plaudono con gioia.

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2 Risposte a “Perchè “The Perfect Woman” non è niente di nuovo ( o di buono )”

  1. Ciao Laura,
    grazie per aver fatto l’analisi di questo spot. Sono contenta che qualcuno ne parli in chiave critica.
    Sono d’accordo su gran parte dei tuoi ragionamenti e spunti di riflessione, anche se non capisco cosa intendi quando dici che la “pubblicità non ha alcun ruolo sociale nel mondo della comunicazione mediatica”. Posso chiederti se potresti approfondire leggermente questa frase qui nei commenti? Perché se ho capito bene cosa intendi vorrei condividere anche io la mia riflessione in merito.
    Grazie!

    1. Miriam, con quella frase intendo dire che non si può delegare alla pubblicità un ruolo di comunicazione sociale, di input al progresso civile e in questo caso politico, di genere.
      La pubblicità di sicuro influenza il target di riferimento, lo fa per spingerlo a consumare il prodotto reclamizzato.
      Ma non si può osannare uno spot perchè, proprio per influenzare quel target a comprare, usa una retorica che riconosce come utile al suo scopo.
      Quindi quando leggo di donne impegnate nella lotta al sessismo osannare questi pubblicitari, mi sembra quanto meno miope se non poco onesto.
      Aspetto la tua riflessione, grazie a te.

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