Media e Stereotipi: a che punto siamo. Un intervento di Graziella Priulla.

Graziella Priulla mezzobustodi Graziella Priulla
sociologa della comunicazione,
docente ordinaria dei processi culturali e comunicativi
all’Università di Catania.
Con Settenove ha pubblicato
“Parole Tossiche. Cronache di ordinario sessismo”.

 

Noi siamo i libri che leggiamo, i giornali che seguiamo, i quadri che osserviamo, gli spettacoli cui assistiamo, la musica che ascoltiamo, i film che amiamo. Insomma, i media che frequentiamo.
Essi costituiscono la quotidianità, sono una dimensione essenziale dell’esperienza contemporanea.
Siamo diventati tutti dipendenti dai mezzi di comunicazione, per svago e per informazione, per conforto e per sicurezza. Essi sono fonti credibili e attraenti, e svolgono un ruolo di potente omologazione del costume, della lingua, dei rapporti sociali e delle relazioni tra le persone. In un Paese che legge poco, in particolare la televisione è stata e continua a essere un potente fattore di costruzione dell’immaginario collettivo.

Le questioni di genere nei media vennero sollevate per la prima volta nella Conferenza Mondiale sulle Donne, a Pechino nel 1995. L’obiettivo strategico J.2 lì definito mirava a “Promuovere un’immagine equilibrata e non stereotipata delle donne nei media”. Riguardava ovviamente anche l’Italia, già tristemente nota per la persistenza annosa di stereotipi sessisti.

Chi conosca l‘attenzione dei media italiani per le figure femminili potrebbe essere indotto a immaginare una loro centralità nello scenario. Nulla è più lontano dal vero. La sovrabbondanza di immagini femminili che contraddistingue la nostra cultura mediatica non è una prova di una sua tendenza a valorizzarle, ma è l’ennesima testimonianza di una tradizione che le mette in mostra solo come oggetti di desiderio. Il soggetto maschile è una specie di osservatore implicito, che guarda dall’esterno, valuta, seziona, giudica e svolge il ruolo attivo; ogni donna pertanto viene definita e si autodefinisce come oggetto di questo sguardo. DEVE piacere. E’ oggetto magari inconsapevole di un potere che riguarda  il lavoro simbolico tramite il quale si interpreta il mondo, si costruiscono gerarchie di rilevanza, si riconoscono esperienze di vita come socialmente e umanamente significative.

Il livello intellettuale, la vita professionale, il ruolo sociale non interessano: il 53% delle donne che appaiono sul piccolo schermo (Censis 2013) non proferisce parola. L’interesse riguarda solo l’aspetto fisico – curve sopra e curve sotto, lato A e lato B  – da guardare, concupire, utilizzare. Il binomio donne – politica tocca soltanto gli scandali sessuali. Se si fa un bilancio di genere ci si accorge che le pagine dei giornali e gli schermi delle televisioni sono abitati sistematicamente da parole maschili.

Le percentuali di presenze femminili autorevoli riportate da tutte le analisi di contenuto risultano addirittura inferiori al tasso di rappresentanza politica, che pure colloca l’Italia a livelli bassi.

Ci siamo talmente abituati/e da non accorgerci quasi più della discrepanza tra l’immagine reale e quella somministrata in tv.
Siamo imprenditrici, scienziate, ministre, scrittrici, magistrate e astronaute: ma l’immaginario collettivo che si riflette nella pubblicità ci vuole sempre ed esclusivamente o madri e massaie premurose o oggetti del desiderio maschile. Addirittura spesso vengono rappresentate solo alcune parti del nostro corpo, quelle “sexy”: esposte come lacerti sul banco di una macelleria. Quotidiani, riviste, filmati, siti. Cartelloni per strada. Donne in mutande o in tanga, in topless, in mezzo a uomini vestiti che rappresentano professioni, parlano dell’attualità, fanno arte o sport, governano.

Il primo passo dell’oggettivazione sessuale è lo sguardo oggettivante, deumanizzante. Così gli uomini sono più pronti a pensare alle donne come oggetti sessuali e a trattarle di conseguenza.

La donna-tipo che appare nei media è giovane, sottile, levigata; ogni scarto dal canone è bandito come imperfezione intollerabile. Vietato ingrassare, vietato invecchiare. Ne risulta una compressione che cancella il fluire del tempo; le età si concentrano nella giovinezza; le bambine sono sessualizzate, le donne adulte innaturalmente bloccate. Ne risulta un’omologazione che cancella le differenze. Lo spazio di libertà espressiva sembra soccombere sotto le pressioni all’adeguamento a modelli prestabiliti di femminilità, senza ripensamenti, reinterpretazioni, scarti dalla norma. Donne continuamente inadeguate, continuamente insoddisfatte: così possono alimentare le industrie miliardarie della moda, della cosmesi, del fitness, della chirurgia estetica. Continuamente sotto lo sguardo degli altri, le donne sembrano condannate a provare costantemente lo scarto tra il corpo reale, cui sono incatenate, e un fantasma di corpo ideale cui si sforzano senza sosta di avvicinarsi.

A distanza di più di dieci anni dalla Conferenza di Pechino, una delle poche indagini comparative che ha analizzato l’immagine diffusa dai mass media in dieci paesi europei (per noi i dati sono stati raccolti dal CENSIS nel 2006), Women and media in Europe, ha posto l’Italia nelle ultime posizioni, insieme con la Grecia, per quanto riguarda la presenza di una cultura sessista. Il rapporto definisce l’Italia un paese “in resistenza”, in cui la rappresentazione stereotipata delle donne è considerata un tratto antropologico così radicato e diffuso che addirittura si teme che non valga la pena di contrastarlo con politiche evolutive.

“In Italia le donne sono rappresentate come oggetti sessuali”. Questa è una delle principali critiche sollevate dal Comitato delle Nazioni Unite che ha il compito di monitorare l’attuazione della Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (CEDAW) negli Stati che l’hanno ratificata.

Oggi però anche da noi è aumentato il livello di non accettazione di un’immagine femminile distorta. In Italia stanno nascendo molti gruppi che hanno identificato in questo aspetto uno dei temi centrali della situazione di anomalia presente nel Paese e che reagiscono con forza, non solo con la denuncia ma proponendo modelli alternativi fin dall’educazione dell’infanzia.

Anche alcuni uomini finalmente si sono accorti che gli stereotipi sono lesivi anche della dignità dell’uomo, umiliato e confinato in una rappresentazione animale e machista.

Nuovi uomini e nuove donne? La transizione in corso sta ridisegnando i confini. I ruoli sono trasformabili. Si può essere soggetti attivi del proprio progetto di vita anche pretendendo che le nostre fonti di informazioni siano migliori.

 

4 Risposte a “Media e Stereotipi: a che punto siamo. Un intervento di Graziella Priulla.”

  1. Un’ottimo post che traduce in cifre e concetti un’impressione difficilmente spiegabile, soprattutto nell’aspetto del singolo caso/ immagine. Mi sarebbe utile un ulteriore approfondimento su un quesito che penso sia stato ben studiato: l’immagine della donna così proposta (e a maggior ragione calendari sexy, playmate e via dicendo) incoraggiano la violenza di genere? Attraverso quale processo? Grazie

    1. Il legame con la violenza di genere non è diretto,è implicito ma esiste. Nel momento in cui tu mercifichi un corpo,lo proponi come oggetto, o mostri una donna come “a disposizione”, implicitamente ammetti che se si sottrae a questa funzione può essere “rotta”, annullata,distrutta.

  2. Gentile Graziella, la ringrazio per questo sintetico e coerente “stato dell’arte” sull’immagine della donna sui media. Vorrei rivolgerle una domanda, su un spetto che pare implicito nel suo scritto ma non è espresso con chiarezza nellesue dinamiche causa effetto. Le chiedo: ritiene che l’attitudine diffusa di utilizzare immagini calendario, playmate, spesso postate anche sui social e commentate con ironia guascona come se fosse un gesto innocuo e banale (bacchettona chi sanziona un po’ di sano divertimento sulle attrattive erotiche di una donna esibita a tale scopo) sia in realtà in relazione con la persistenza delle violenze contro le donne fino al femminicidio? Non fanno in qualche modo parte della stessa cultura che oggettifica il corpo femminile come se fosse qualcosa di cui è normale fruire? Il fatto che anche il maschio sia sempre iù fotografato in pose sessualizzate/oggettificate non mi sembra un progresso, ma solo una povertà culturale. Amo la bellezza dei corpi nelle foto e nell’arte e dal vero, ma nel caso del corpo femminile non riesco a non correlarlo con un aspetto con cui molti uomini che si sollazzano con le “conigliette” postate pensano onestamente di non aver niente a che vedere. La ringrazio in anticipo per la sua opinione.

    1. Carissima
      sono d’accordo con lei.Il legame tra violenza simbolica e violenza tout court esiste, anche se molti e molte non lo individuano.
      E il fatto che anche molti corpi di giovani uomini siano sottoposti allo stesso trattamento è sintomo di regressione culturale:un aspetto tra gli altri dell’omologazione al pensiero unico.

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