Madame LA PrésidentE

In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio
Egli era in principio presso Dio: 
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che
esiste. 
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini; 
la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l’hanno accolta. 

(…)

E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre,
pieno di grazia e di verità

(Dal Vangelo, secondo Giovanni)

Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.

(Dal Libro della Genesi)

 

La parola, il verbo, il logos…. sono tanto importanti che nei passi delle sacre Scritture che ho riportato, addirittura, identificano non solo il potere e il dominio (Adamo che dà un nome agli animali, esseri considerati inferiori a lui, nominandoli, trovando un nome ad essi, sancisce la loro l’inferiorità rispetto a lui e il suo potere), ma la divinità stessa. Gesù, per Giovanni, è il Verbo, nel significato di “Logos” greco.

“Logos” non significa solamente “sintagma”, ha un significato più ampio che abbraccia anche concetti come “scelta”, “ragion d’essere”, “spiegazione”, “ragione”. La parola, dunque, è potere e vera e propria “essenza”.

Siamo tutt* figl* in Italia del Cristianesimo e i passi della Bibbia che ho riportato fanno parte della nostra cultura da millenni.

Nell’epoca dei massmedia, assistiamo ad un altro tipo di “parola”, la parola-immagine, la narrazione – cioè – di fatti, eventi, personaggi attraverso  non soltanto le parole, ma anche le immagini, spesso abbinate insieme.

Non solo, spesso anche nel parlare tra la gente comune si sente dire che “se non appari in TV non sei nessuno”, perché ormai tutte le cose e le persone note sono quelle che si vedono e che vengono raccontate in televisione.

Tutto quello che non viene, perciò, scritto, raccontato, illustrato, è come se non esistesse, come se fosse meno reale.

Mi sono dilungata in questi discorsi perché nei giorni scorsi sono balzati alla mia attenzione un paio di avvenimenti che hanno a che vedere con le parole, i nomi.

Il primo è l’uscita in libreria di “Donne, grammatica e media” di Cecilia Robustelli, una docente di linguistica e consulente dell’Accademia della Crusca.

Nel suo libro, uscito dopo circa 30 anni da “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” di Alma Sabatini, l’autrice fornisce indicazioni chiare per superare dubbi e perplessità nell’uso del femminile nei sostantivi che definiscono professioni “di prestigio”. Possiamo dire “ministra?” e “chirurga”? E “architetta”? I termini al femminile esistono e non sono un optional e, per una rappresentazione più aderente alla realtà, occorre usare le parole giuste.

Fino a una cinquantina di anni fa (ma anche meno), le avvocate, per esempio, erano poche. Le stesse donne che ricoprivano quel ruolo insistevano par farsi chiamare al maschile perché l’uso del femminile era usato in senso denigratorio, per togliere valore alla persona che faceva quel lavoro, per sminuire. Inoltre, linguisticamente parlando il “significato” della parola avvocato era perfettamente aderente al suo “significante”, ovvero tutt* quant* riconoscevano che quella parola “avvocato”, scritta con quelle lettere e in quel modo, indicava esattamente il professionista (maschio) che esercitava la professione.

Oggi, invece, le avvocate sono tante. E sono sempre di più. Il numero delle studentesse che si laureano alla facoltà di giurisprudenza è sempre più alto e dunque, tra le persone comuni e tra le avvocate, si è iniziato a notare che la parola avvocato non era più perfettamente aderente al suo significato, semplicemente per il fatto che gli avvocati sono uomini, ma non comprendono più la stragrande maggioranza di chi esercita questa professione. Perciò è sempre più indispensabile che la lingua si adegui alla realtà. Non esistono più solo gli avvocati (o i ministri, o gli architetti, o i chirurghi), esistono anche le avvocate (le ministre, le architette e le chirurghe).

Non c’è solo un’esigenza linguistica a spronare a usare i femminili, ma anche un’esigenza simbolica.

Dice Cecilia Robustelli:

Il linguaggio contribuisce a costruire modelli culturali e quindi anche i modelli di “genere” maschile e femminile: per questo è molto importante nella lotta contro la discriminazione. I modelli di genere cambiano nel tempo: oggi, per esempio, è necessario che il linguaggio rifletta il tramonto del modello di omologazione delle donne al paradigma maschile – che rappresentava un vero traguardo solo poche decine di anni fa! – e sostenga quello che si basa sulla consapevolezza delle differenze di genere fra uomini e donne. Un linguaggio che associa le caratteristiche femminili a modelli negativi (si pensi ai proverbi!), che nasconde la presenza femminile dentro le espressioni maschili (anche il Papa oggi aggiunge care sorelle a a cari fratelli), che si ostina a usare la forma maschile dei titoli professionali e istituzionali di prestigio anche riferiti a una donna (maestra, velina e infermiera sono forme accettate, architetta, ministra e ingegnera no!) è discriminante e perpetua una discriminazione di genere. E questo è anche contro la legge perché la recente Convenzione di Instanbul sancisce (cap. 3.12) l’obbligo di «promuovere i cambiamenti nei comportamenti socio-culturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini». 

Tuttavia, le resistenze ad adottare i termini al femminile per le professioni “di prestigio” sono ancora forti (e non solo per timore di trasgredire le regole grammaticali), per Robustelli, tanto da parte maschile, quanto da parte femminile.

Credo infine che questa resistenza riveli, specialmente da parte degli uomini, una diffidenza ancora diffusa ad accettare il riconoscimento di uno status sociale di piena dignità socio-professionale per le donne e, in termini più generali, una profonda resistenza a mutare i modelli di genere tradizionali. Da parte delle donne, invece, temo che la preferenza per i titoli professionali di genere maschile risieda nella convinzione che il titolo maschile “valga di più” di quello femminile.  

Le azioni che si possono mettere in atto perché la lingua italiana, nel suo uso comune e corrente si adegui alla realtà, dando una migliore rappresentazione del femminile sono tante, e sono state elaborate con la consulenza dell’Accademia della Crusca. Abbracciano il mondo dell’informazione, della comunicazione massmediatica, del linguaggio istituzionale e anche quello dei testi scolastici a partire dalla scuola elementare.

L’altro evento che mi ha portata a riflettere sull’importanza del nominare le professioni correttamente al femminile viene dalla Francia.

Un deputato dell’Assemlea Nazionale francese, Julien Aubert, si rivolge alla vicepresidente dell’Assemblea, Sandrine Mazetier, che quel giorno presiede i lavori, chiamandola “Madame le Président” e lei, giustamente, lo corregge e insiste per essere chiamata “Madame LA PrésidentE” ovvero al femminile, come Laura Boldrini, in quella ormai famosa giornata di studio sulla Convenzione di Istanbul e il linguaggio dei media.

Tutt*, credo, ricordiamo come venne subissata di critiche Laura Boldrini per aver sottolineato che lei è LA Presidente e non IL Presidente (e non solo per quello).

Dove sta la differenza tra l’Italia e la Francia in questi due casi così simili?

Nella risposta delle istituzioni: 1378 euro di multa per Aubert (recidivo e provocatorio: appena dopo questi fatti, si rivolge ad un’altra donna che ricopre anch’essa una carica istituzionale, Ségolène Royal, chiamandola “Madame LE Ministre”).

Per fortuna che le Istituzioni francesi hanno multato Aubert, perché, come accade troppo spesso, il deputato si è sentito vessato, punito ingiustamente e i suoi colleghi lo hanno difeso e sostenuto, ridicolizzando l’atto sanzionatorio, come a dire che la cosa è in realtà poco importante: le donne devono stare al loro posto, non sulla sedia presidenziale e, se per caso vi giungono, debbono tacere se vengono appellate al maschile.

La Presidente Boldrini ha indirizzato un messaggio di solidarietà a Sandrine Mazetier:

boldrini

nel quale dice:

Anche nel mio ruolo di Presidente della Camera spesso mi capita che deputati e deputate persistano nel rivolgersi a me come “Signor Presidente”. La questione, sollevata pubblicamente, è stata anche oggetto di critiche e derisioni da parte di alcuni mezzi di informazione.

Tutto ciò ha consolidato in me la convinzione che il rispetto della donna è un fattore che passa sicuramente attraverso l’uso di un linguaggio corretto che restituisca il genere di appartenenza.

Questo può apparire ad alcuni come una pura formalità o peggio ancora un vezzo. Rappresenta, invece, un modo per combattere antichi ma perduranti stereotipi nella rappresentazione delle donne e nella resistenza a riconoscerne il ruolo anche quando esse ricoprono posizioni apicali nelle istituzioni pubbliche o nel mondo privato.

 

 Potete immaginare i commenti su Face Book a tale messaggio! Denigratori, ridicolizzanti se non addirittura irriverenti e irrispettosi. Volti, tutti a sottolineare la pochezza della questione. Prese per i fondelli a Laura Boldrini e alle donne tutte che insistono con queste “stronzate”, come sono state definite.

Mi dispiace, cari commentatori di Face Book, cari Italiani e care Italiane che pensate che siano inezie: non lo sono. Hanno una carica e una valenza simbolica ed educativa di grandi dimensioni oltre che essere corrette dal punto di vista grammaticale. 

Non dimentichiamo che non nominare significa cancellare e che essere nominati è quasi come esistere. E, difatti, anche in tema di letteratura per l’infanzia si lavora sempre più spesso (anche se a volte per “cavalcare l’onda” e per guadagnare) per fornire modelli e personaggi femminili variegati e diversi dal solito. Come per dire: “Guarda! Esistono le Presidenti, le ministre e le chirurghe e non solo le mamme, le principesse, le cameriere e le maestre” (ruoli “di cura e di educazione” riconosciuti universalmente come “da donna”).

Fonti: qui e qui