L’educazione sessista si contrasta anche con un dizionario illustrato

Ho avuto modo di conoscere di persona Irene Biemmi, ad un evento nella mia città che si occupava di prevenzione e contrasto del bullismo sessista nelle scuole.

Per chi non la conoscesse, Irene Biemmi è ricercatrice e formatrice esperta di Pedagogia di genere e delle pari opportunità, autrice di numerosi saggi in tema, per l’editore Giralangolo dirige la Collana di libri illustrati “Sottosopra”, interamente dedicata all’abbattimento degli stereotipi sessisti. Scrive anche libri per bambini e per bambine.

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Nell’occasione del nostro incontro, le ho chiesto la disponibilità a rilasciarmi, per NarrAzioni Differenti, un’intervista e così l’ho raggiunta telefonicamente lunedì scorso e abbiamo fatto una bella chiacchierata a proposito del suo libro “Educazione sessista” e del suo ultimo lavoro “Cosa faremo da grandi?” che vi riporto per intero, perché Irene spiega le sue idee, le sue analisi e i suoi studi in modo impeccabile e quindi lascio che a “parlare” sia proprio lei.

Chiara: “Educazione sessista” è un libro di 5 ani fa, ma il tema, oggi come mai, è ancora attuale. Mi racconti come è nata l’idea di questa tua ricerca?

Irene: volentieri. “Educazione sessista” è un testo che analizza un campione di testi scolastici della scuola elementare che sono stati editi agli inizi del 2000. L’idea di analizzare i libri di testo di quel particolare periodo mi venne perché tra la fine degli anni ’90, e in particolare tra il ’98 e il 2001, l’Italia aderì a un grosso progetto europeo che si chiamava “Progetto POLITE” che è acronimo di Pari Opportunità nei Libri di Testo e questo progetto che coinvolse non solo il nostro Paese, ma molti altri Paesi europei, tra cui anche il Portogallo, la Spagna e molti altri, aveva proprio come obiettivo quello di creare un codice di autoregolamentazione per le case editrici scolastiche, affinché i futuri libri di testo fossero finalmente liberi da pregiudizi sessisti.

Allora, la mia ricerca nacque in quegli anni per verificare gli esiti di questo grosso progetto che tra l’altro ebbe un appoggio ministeriale e che vide l’adesione di tutte le case editrici italiane che fanno riferimento all’AIE (Associazione Italiana Editori) per cui tutto il mondo editoriale per l’infanzia in quel periodo appoggiò questo progetto. Mi interessava capire se questi libri di testo fossero migliorati o meno. Ma dall’analisi emerse che, in realtà, non c’era stato un grande miglioramento.

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Chiara: la tua ricerca è molto approfondita e  articolata. Quali sono i parametri che hai preso a riferimento per la tua analisi? Quali sono e anche come li hai individuati?

Irene: Avevo pochissimi termini di riferimento di ricerche analoghe fatte in questo ambito, perché, facendo anche una ricerca bibliografica degli studi fatti in Italia, proprio su questo tema particolare della parità nei testi scolastici, è emerso che in realtà si potevano contare sulla punta delle dita di una mano: ce n’erano un paio negli anni ’70 e poi un grosso studio a metà degli anni ’80: “Immagini maschili e femminili nei testi per le elementari” di Rossana Pace. Avevo veramente pochissimi termini di paragone e quindi anche per la costruzione dello strumento metodologico, ho fatto tutto in autonomia. Ho costruito uno strumento ad hoc leggendo tutti questi libri. In totale ho analizzato dieci libri di lettura che contenevano circa trentacinque storielle, per cui ho analizzato un campione anche abbastanza grosso di circa 350 storie. Prima le leggevo tutte e poi, man mano che leggevo andavo a selezionare le variabili che secondo me erano più significative. E sulla base di queste, ho costruito un doppio strumento di analisi: una griglia di analisi quantitativa e una scala, che ho chiamato “scala di sessismo”, che è uno strumento di tipo qualitativo.

Chiara: Quali sono i risultati più interessanti del tuo studio?

Irene: Distinguendo tra i due tipi di ricerca che ho condotto, quella quantitativa e quella qualitativa, rispetto alla prima, il primo dato che emerge è che nei libri di lettura delle elementari che quindi leggono sia i bambini, sia le bambine in IV elementare, non c’è parità numerica tra i protagonisti maschili e femminili delle storie. Se si ragiona in termini percentuali, ho individuato che circa un 59% dei protagonisti delle vicende sono maschi, uomini adulti oppure bambini, e circa un 37% sono protagoniste femminili, quindi donne e bambine. Se si fa un rapporto tra queste due percentuali, 59 e 37, viene fuori un numero che è un 1,6 che ci dice che per ogni 10 protagoniste femmine rappresentate in queste storie, vengono rappresentati 16 maschi. Questo secondo me è un primo dato su cui riflettere, partendo da un ragionamento abbastanza ovvio, per cui, visto che l’umanità è composta circa da metà maschi e da metà femmine (anzi, si sa che le donne, nella popolazione mondiale, sono in maggior numero), non si capisce perché nei libri di testo debbano diventare un gruppo di minoranza. I lettori e le lettrici di questi libri si troveranno di fronte un mondo popolato in maggioranza al maschile, che stride con la realtà concreta.

gruppo-di-ragazzi-e-di-ragazze-sorridenti-7399782Nei dati qualitativi sono andata a fare un esame più approfondito sugli stereotipi di genere presenti in queste storie, ma ho fatto anche un’altra operazione complementare, che è quella di andare ad individuare eventuali modelli anticonvenzionali, cioè personaggi maschili o femminili che stridono rispetto ai canoni tradizionali del maschile e del femminile. E da questa analisi, secondo me, è venuta fuori una cosa interessante. Nell’insieme, in questi libri, gli stereotipi di genere sono assolutamente in sovrannumero rispetto agli antistereotipi. Quando, però, sono presenti antistereotipi, modelli divergenti, modelli “devianti”, quasi sempre questi modelli sono riferiti al mondo femminile e invece pochissimi sono riferiti al mondo maschile.

Faccio degli esempi: in queste storie, si trovano comunque, un buon numero di bambine coraggiose, attive, avventurose, disubbidienti, creative, fantasiose, esperte di computer. Si trovano anche donne adulte spiritose, astute, sicure di sé, decise, intelligenti, donne che lavorano.

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Si trovano quindi degli antistereotipi sia nel mondo femminile infantile, sia nel mondo femminile adulto, la forte contraddizione, però, deriva dal fatto che le bambine che assumono dei comportamenti anticonvenzionali, le bambine, per intenderci, “modello Pippi Calzelunghe” sono sempre connotate positivamente all’interno della vicenda. Sono modelli che vengono, comunque, approvati. Quando invece sono le donne adulte ad assumere tratti anticonvenzionali, per esempio il modello della donna lavoratrice che fa magari un lavoro impegnativo, queste donne quasi sempre vengono criticate. Ci sono diverse storie in cui c’è un bambino oppure una bambina protagonista che soffre e si lamenta perché la madre, appunto, lavora tutto il giorno, non ha tempo di preparare il pranzo e la cena e queste bimbe o questi bimbi sono molto tristi, per questo (ovviamente il padre non è mai responsabile del malessere dei figli/delle figlie, perché non è suo dovere prendersi cura di loro!). Per cui quando vengono proposti modelli adulti femminili alternativi, in realtà ci vengono presentati per riaffermare un messaggio tradizionale: sarebbe meglio che le donne non lavorassero e che stessero a casa.

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Chiara: come a dire: “finché sei bambina, puoi essere libera, ma quando diventi adulta, libera non puoi esserlo più”

Irene: esatto. E tutto questo crea una forte contraddizione nelle lettrici bambine. Si stimolano le bambine a essere intraprendenti, spiritose, eccetera e poi si criticano le donne adulte che fanno la stessa cosa e che sono il loro principale modello di riferimento. Perciò si chiede alle bambine di essere diverse da quello che è il loro principale modello di riferimento: il modello femminile adulto.

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Chiara: questa è una cosa abbastanza seria su cui riflettere. Per il maschile, invece questo problema non c’è, perché, dicevi, gli antistereotipi sono meno presenti.

Irene: per quanto riguarda il mondo maschile adulto, quindi, possiamo dire “i papà” protagonisti delle storie, non ho rilevato in tutte queste storie neanche un caso di modello divergente. Non c’è un papà che accompagna i figli a scuola, che prepara la cena, che va a fare la spesa, che fa le coccole, che racconta una fiaba ai propri bambini. Tutte attività che i papà di oggi, invece, direi che fanno abitualmente. Quindi sul fronte maschile adulto c’è proprio una totale non aderenza alla realtà. Sul fronte dei bambini, dei protagonisti maschili in età infantile, ci sono pochissimi esempi di bambini timidi e introversi, veramente in numero molto più limitato rispetto alle bambine. Quindi c’è una maggiore aderenza allo stereotipo sicuramente nel modello maschile che nel modello femminile visto che quest’ultimo ha questa doppia rappresentazione: quella più tradizionale e quella più innovativa.

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Chiara: davvero molto interessante. Ultimamente, invece, ti sei occupata di un nuovo lavoro che io ho comprato e letto ed è veramente molto bello. E’ un libro per l’infanzia e si intitola: “Cosa faremo da grandi? (Settenove, 2015)“. E’ piaciuto anche ai miei figli perché ha un formato grande ed ha delle bellissime illustrazioni. Come mai hai deciso di scrivere questo che tu chiami “prontuario dei mestieri per le bambine e i bambini”? Che cosa ti ha spinto a dedicare il tuo ultimo lavoro direttamente all’infanzia?

Foto del 79096446-03-2457106 alle 21:58Irene: in realtà, la ricerca di cui ho appena parlato, quella sui libri di testo e quest’ultimo libro nascono da un progetto comune che è quello di ampliare il più possibile l’immaginario “di genere” che noi generazioni adulte lasciamo in eredità alle nostre bimbe e ai nostri bimbi. Quindi, nei libri di testo, nella parte quantitativa, io avevo analizzato, per esempio, le professioni che vengono attribuite agli uomini e alle donne e ne era emerso un panorama che per me era veramente allarmante. Emergeva che i protagonisti maschili delle storie svolgevano ben 50 diverse professioni, tra cui alcune particolarmente prestigiose, come l’esploratore, il geologo, l’ingegnere, il bibliotecario, il direttore di orchestra…,  mentre alle donne veniva proposto un ventaglio molto limitato di attività professionali, tra cui la maestra elementare era in assoluto la professione più gettonata. Di fronte a questo e sfogliando tanti e tanti albi per l’infanzia dedicati proprio ai nomi dei mestieri (ci sono questi piccoli libri cartonati, non so se li hai presenti, proprio sui mestieri, su cosa farò da grande, libri messi in mano ai bambini e alle bambine più piccol* proprio per imparare, dal punto di vista linguistico, tante nuove parole, per imparare i nomi delle varie professioni), era di nuovo emerso il discorso che su 10-15 professioni citate, normalmente 12 sono professioni declinate al maschile: il muratore, il dottore, il pompiere, il domatore di leoni, il contadino, il meccanico e alle donne vengono attribuite pochissime professioni che sono la ballerina, la maestra o, al limite, l’infermiera. Allora, secondo me, insegnare ai bimbi, proprio quando stanno apprendendo il linguaggio, un mondo così discriminante in cui i mestieri più belli e prestigiosi vengono svolti in grande quantità solo dal genere maschile, è completamente lesivo del loro diritto alle pari opportunità. Ne faccio proprio una questione di diritti. Non a caso il libro in questione, questo “Cosa faremo da grandi?” ha avuto il patrocinio di UNICEF Italia e secondo me questa è una cosa molto importante perché vuol dire che creare questo ventaglio paritetico di mestieri è una questione centrale per garantire i diritti all’infanzia e offrire realmente pari opportunità.

Foto del 79283205-03-2457106 alle 22:01Il libro presenta due protagonisti che sono Marta e Diego che devono fare in classe il “famoso” tema: “Cosa vuoi fare da grande?” e vogliono fare esattamente le stesse cose, l’una declinata al femminile e l’altra al maschile. Il libro si presenta quindi come una sorta di “dizionario visivo dei mestieri”, vorrei chiamarlo così perché qui le immagini hanno un primato sulla parola. Sfogliandolo, i bimbi e le bimbe hanno modo di capire che possono fare esattamente gli stessi mestieri: se il bambino vuole fare l’ingegnere, la bambina può fare l’ingegnera, l’illustratore e l’illustratrice, il giornalista, la giornalista e così via.

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C’è una cosa che ci tengo a sottolineare di questo libro e riguarda il fatto che mi sono ricollegata agli studi sul sessismo linguistico che dicono che quando una donna si trova a svolgere una professione che tradizionalmente è “maschile”, è giusto e doveroso che la stessa sia declinata al femminile, quindi se una donna si trova a fare il mestiere di sindaco, si dovrà definire “sindaca”. Ma io trovo che anche la declinazione dei titoli al femminile talvolta non sia neppure sufficiente, perché ci sono dei titoli al femminile che hanno una connotazione differente, tendenzialmente squalificante rispetto al titolo al maschile. Per esempio, c’è il maestro e c’è la maestra, solo che “maestro” e “maestra” hanno connotazioni diverse, perché la maestra è solo la maestra di scuola, mentre “maestro” può avere un significato molto più esteso (ad esempio il “maestro di vita”). Perciò ho deciso di rivisitare e di svincolare da stereotipi anche i titoli femminili, per cui “la maestra” non è necessariamente la maestra elementare, ma può essere la maestra di sci, oppure “la direttrice” non è la direttrice scolastica, ma la direttrice di orchestra, così come “la segretaria” non è quella che risponde al telefono, ma la segretaria di un partito ecologista…

Chiara: io conosco tante donne che mi dicono: “certo che i bambini declinano al maschile tante attività, ma è perché nella loro realtà quotidiana osservano una maggiore presenza del maschile in certi campi che non del femminile” e vedono un po’ i libri come questo tuo, e altri interventi simili come degli “interventi calati dall’alto”. In realtà tu, sottolineando il patrocinio dell’UNICEF mi hai fatto comprendere come aprire l’immaginario ai bambin* sia un diritto dell’infanzia, perciò  a queste persone, si può rispondere che si tratta di un diritto quello di non “rinchiudere” i sogni dei bambini osservando semplicemente la realtà, che comunque è ancora una realtà discriminatoria.

Irene: esatto, ne farei una questione di diritti. I bambin* hanno diritto prima a sognare e poi a trasformare questi sogni in progetti nella maniera il più possibile sgombra da pregiudizi e stereotipi. E farei notare anche un’altra cosa: tutte le critiche che vengono fatte sui cambiamenti programmati della lingua, sono spesso tendenziose perché in realtà il progetto che abbiamo in mente e che aveva già in mente Alma Sabatini ancora nel 1987, non è quello di fare una forzatura rispetto alla realtà, ma di dare una rappresentazione linguistica e quindi una visibilità linguistica a figure femminili che già nella realtà esistono e svolgono quelle professioni. Parlare di una donna capotreno, di una donna ingegnera, di una donna illustratrice, una donna giornalista non è fare una forzatura: queste professioni, sebbene in minor numero rispetto a quelle maschili, già sono svolte dalle donne, quindi sarebbe dannoso non rappresentarle linguisticamente, perché sappiamo bene che quello che non viene nominato “non esiste” nei pensieri delle persone. Si tratta semplicemente di stimolare dei cambiamenti linguistici che diano equa rappresentazione di cambiamenti sociali che sono già avvenuti nella realtà.

Foto del 79681376-03-2457106 alle 22:08Chiara: e invece delle polemiche che sempre più spesso investono gli interventi educativi nelle scuole in materia di parità di genere cosa pensi?

Irene: io penso che innanzitutto ci sia una grossa confusione, sia per chi critica questi progetti, sia per chi li porta avanti, tra l’educazione di genere e l’educazione sessuale. Credo che molti problemi nascano da questo fraintendimento. L’educazione di genere è quella che mira ad una decontrazione degli stereotipi culturali sul maschile e sul femminile. L’educazione di genere non ha a che fare con l’educazione sessuale vera e propria e nemmeno con gli orientamenti sessuali. Io credo che tanti dei timori derivino proprio da una promiscuità tra questi due aspetti che devono essere entrambi portati avanti nelle scuole, ovviamente, ma sono due piani separati. Penso anche che la maggior parte dei timori che hanno le famiglie, i padri, le madri siano quasi sempre timori su rovesciamenti di ruoli rispetto al maschile. Cioè quando si fanno questi progetti in classe, le famiglie sussultano se si mette in mano a un bambino una bambola, mentre nessuno sussulta se si mette una bambina a giocare con le macchinine o con i robot. Io credo che questi timori sempre più pressanti riguardo al maschile, siano dovuti a dei pregiudizi omofobici evidenti nel nostro Paese, per cui, in maniera del tutto assurda si pensa che un bambino che gioca con una bambola o che un bambino che ama il rosa o i colori pastello, abbia dei comportamenti che possano essere predittivi di una sua futura omosessualità, che è evidentemente un ragionamento senza alcun fondamento. Penso che molto del clamore che accompagna queste iniziative sia dovuto a un timore omofobico.

Chiara: concordo. E per finire, Irene, tu, quando eri piccola, cosa volevi fare da grande?

Irene (ride): Sincera, sincera, pare, dai racconti dei miei genitori, che dicessi di voler fare la ballerina, però ho tutta una serie di fotografie, di quando ero proprio piccola piccola, ritratta mentre vestivo i panni di Zorro per Carnevale… Per cui dicevo di voler fare la ballerina, ma amavo questo vestito da Zorro che era un po’ il mio mito.. Perciò direi che ero indecisa tra la ballerina e Zorro! Mai limitare i sogni dei bambini e delle bambine.

Ringrazio ancora moltissimo Irene Biemmi per la disponibilità, la simpatia e soprattutto per il lavoro che porta avanti.