Le guerrigliere curde secondo i media mainstream

Da qualche giorno le immagini delle guerrigliere curde hanno guadagnato le prime pagine dei quotidiani online.
Dalle gallery di Repubblica, al più glamour GQ.

Ma perché i media mainstream hanno iniziato a parlare di queste donne e, soprattutto, come lo fanno?

Nei territori di guerra le donne sono solitamente raccontate esclusivamente come vittime, il tristemente noto “donneebambini”, se questi paesi sono anche a prevalenza di religione islamica le donne sono doppiamente vittime.

Nella visione occidentalista la religione islamica è un blocco monolitico, in cui le donne sarebbero tutte sottomesse ed oppresse.
Le culture “altre” non ammettono sfumature e sono sempre le responsabili chiamate in causa di violenze e femminicidi, peccato che quando queste violenze e questi femminicidi avvengono in Italia o comunque sono compiuti da occidentali non è più la cultura la responsabile, ma il raptus.

Le combattenti curde tradiscono l’immaginario della donna “orientale” addomesticata e sottomessa e probabilmente anche per questo motivo funzionano bene come curioso diversivo etnico a cui dedicare post e soprattutto gallery di immagini, selezionando magari le più glamour.

Da una gallery di repubblica.it
Da una gallery di repubblica.it

Il racconto che fanno la maggiorparte dei quotidiani mainstream delle guerrigliere curde è sicuramente superficiale, a tratti gossipparo, proiettato più al sensazionalismo che all’informazione.
Ci forniscono dati generici, ci dicono che queste donne combattono contro l’IS (Stato Islamico), che sono per l’emancipazione femminile e poco altro, la cosa però che sembra premere raccontare alla maggiorparte dei/delle giornalist* è che si tratta di donne.
Si parla di queste guerrigliere perché donne, come un anomalo fatto di costume: che strano che le donne così materne si siano messe a fare la guerra! che cosa insolita che queste donne abbiano un kalashnikov e non un burka!
Le guerrigliere curde vengono sessualizzate, l’attenzione che i quotidiani online riserva loro è incentrata sul fatto che si tratti di  donne, no sul Rojava, no sul PKK, no sulle rivendicazioni femministe e anticapitaliste.
Come scritto anche in questo post, che si pone lo stesso obiettivo di analizzare il modo in cui viene confezionata dai media l’informazione  sulla resistenza delle donne curde: “le guerrigliere curde vengono prese in considerazione dai media italiani in quanto donne, e non in quanto militanti di organizzazioni politiche con delle idee e delle proposte politiche precise, rivoluzionarie”.

La sessualizzazione riservata alle guerrigliere curde è evidente in affermazioni come queste:

Faccio una gran fatica a trovare sulla mia bacheca Facebook un solo post che parli di Iraq, degli yaziri, del ‘califfato’ o almeno delle guerrigliere del PKK, delle quali potrei innamorarmi in blocco.
(Giornalismo partecipativo)

 

Serhat ha 40 anni, e dà l’idea di essere stata molto bella in passato. Si è unita al PKK quando era una studentessa, negli anni Ottanta, e da quel momento ha passato gran parte della sua vita qui.
(Vice, in un articolo del 2012)

Repubblica in questo articolo in cui parla di Arin Mirkan, guerrigliera suicida per non cadere prigioniera del nemico, sminuisce il coraggio delle donne curde presentando il loro prender parte attiva alla resistenza armata non come un tassello di un definito progetto politico ma come una scelta obbligata per sottrarsi al loro unico alternativo destino: quello di spose bambine.

La donna è solo l’ultima delle molte che scelgono la via delle armi al destino di diventare spose bambine.

Il Giornale invece la butta in casciara definendo le guerrigliere curde kamikaze e riportando la polemica che ha investito il marchio di abbigliamento svedese H&M per aver realizzato per la collezione autunno-inverno una tuta simile alla divisa delle guerrigliere.

Vestivamo alla kamikaze, come le guerrigliere curde. Come la ragazza che qualche giorno fa si è fatta esplodere a Kobane, contro i combattenti dell’Isis

H&M si è difesa sostenendo che le jumpsuit e il colore verde militare sono di gran moda quest’anno e che la somiglianza è del tutto casuale. Tutto fa brand? Il sodalizio marketing-orientalismo non è certo una novità, ma in questo caso specifico probabilmente non era voluto, ma per i media nostrani si tratta comunque di una ghiotta occasione per scrivere brutti articoli e trattare un argomento non nella complessità che meriterebbe, ma riportandone solo le parti più digeribili e fondamentalmente inutili.

Il Corriere della sera riporta la notizia dell’uccione di una guerrigliera curda con queste parole:

Colpisce il montaggio di due foto parallele. Nella prima compare una bella ragazza molto giovane dei gruppi femminili combattenti curdi (le Ypj, «Unità di difesa delle donne»). Sorride, è in mimetica, in una mano tiene il fucile, con l’altra fa la «V» di vittoria. Ma nella seconda immagine uno dei tagliagole islamici brandisce la sua testa decapitata come un trofeo, le lunghe trecce bionde pendono nel vuoto.

Un guerrigliere uomo difficilmente verrebbe definito bello, per le donne questo aggettivo sembra indispensabile, belle e giovani o al massimo in passato saranno state belle e giovani. Il giornalista del Corriere anche nel descrivere la macabra immagine dell’esposizione della testa decapitata lo fa femminilizzandola, “lunghe trecce biode”.

Purtroppo come è successo con le foto delle ragazzine indiane stuprate e impiccate, anche la foto di questa guerrigliera decapitata ha iniziato a circolare sui media e anche su qualche bacheca facebook. Ha fatto ad esempio la sua comparsa in quella di Marina Terragni, firma di Io Donna, rubrica del Corriere.it. Senza una riga di commento, buttata lì su una bacheca facebook, pronta a scorrere via per lasciare spazio alla prossima indignazione da tastiera. Dopo la foto della testa della guerriglera curda Terragni pubblica un simpatico e divertente link che prende ingiro due giovani faschion blogger, adesso quella foto dell’orrore convive sulla stessa bacheca con oroscopi, gattini e battute divertenti.

E il cerchio si chiude, le donne tornano ad essere sempre e solo vittime.

Facile, ma aggiungerei anche inutile, irrispettoso, da macabro voyeurismo, condividere immagini che suscitano orrore momentaneo, e passeggera indignazione, che fomentano odio razziale e prospettano soluzioni colonialiste, più difficile, e magari anche un po’ scomodo, è raccontare chi sono quelle donne e per cosa combattono.

10513266_345305628974035_3161880292492199006_nL’immagine delle combattenti curde che ci restituiscono gli organi di informazione mainstream è annacquata e banalizzata, vengono trasmessi solo quei dati che possono essere sfoggiati in comode discussioni da salotto, ma non ci viene detto veramente chi sono queste donne e per cosa combattono, perchè questo destabilizzerebbe l’immaginario dell’occidente buono e degli “altri” cattivi, perchè dovrebbero dirci anche che quelle donne sono femministe, anticapitaliste e antiimperialiste e che hanno immaginato e pure costruito un “oriente” che non è quello barbaro, incivile e oppressore di “donneebambini”.

 

Per quasi tutti i media quelle donne appartengono ai peshmerga, ma in realtà la definizione non è esatta, i pashmerga sono corpi militari del Kurdistan iracheno e sono filooccidentali, queste donne invece appartengono al YPG, Unità di protezione del popolo, curdi siriani e legati al PKK, curdi turchi. Il PKK è un’organizzazione di ispirazione marxista-leninista, ma anche laica, libertaria e femminista, che da anni combatte contro l’IS, ma nonostante ciò è ancora iscritta nel registro delle organizzazioni terroriste.

Per una informazione completa su YPG e PKK consiglio questo post dei wuming.

YPG e PKK hanno liberato intere zone del Kurdistan siriano e hanno costruito nella zona libera del Rojava degli autogoverni ispirati a principi democratici, femministi, ecologisti e anticapitalisti.

Dalla prefazione del Contratto sociale del Rojava , che ha sicuramente meno condivisioni sulle bacheche facebook di foto e video di decapitazioni, possiamo leggere questo:

Noi popoli delle aree di auto-amministrazione, curdi democratici, arabi e assiri (caldei assiri), turcomanni, armeni e ceceni, dal nostro libero arbitrio abbiamo annunciato la volontà di materializzazione di principi di giustizia, libertà e democrazia nel rispetto del principio di un equilibrio ecologico e di uguaglianza, senza discriminazioni basate su razza, religione, credo, dottrina o genere, per ottenere la politica e un tessuto morale di una società democratica, per un funzionamento basato sulla reciproca comprensione e la convivenza nella diversità e nel rispetto secondo il principio di autodeterminazione dei popoli, garantendo i diritti delle donne e dei bambini, la difesa di protezione e il rispetto della libertà di religione e di credo. Le aree di autogestione democratica non accettano il concetto di nazionalismo di stato, militare e religioso. Si accetta la gestione centralizzata, basata sulla regola generale di apertura a tutte le forme di compatibilità con le tradizioni democratiche e pluralistiche che permetta a tutti i gruppi sociali, alle identità culturali di esprimere se stessi attraverso le loro organizzazioni, e rispetti il confine siriano e le carte dei diritti umani, preservando, così, la pace civile e internazionale.

E’ un modello di società nuova, basata su principi di pluralismo e convivenza, è una società anticapitalista e antipatriarcale.
Le donne del YPG non combattono per una vaga emancipazione femminile, così come ci raccontano i media mainstream, sono femministe anticapitaliste e il loro femminismo si iscrive all’interno di un progetto politico più vasto che lotta sia contro l’oscurantismo e il potere patriarcale dell’ISIS, sia contro l’imperialismo USA e occidentale.

Queste donne sono comuniste, femministe, libertarie. Queste donne sono scomode, sono pericolose, perchè ci hanno mosrato che esiste un’alternativa al patriarcato.