Estetizzazione e banalizzazione della violenza

La violenza è glamour. Il pallore del viso “modello cadavere” è all’ultima moda, pose sexy e schizzi di sangue splatter, corpi buttati in scenari del crimine alla Csi. Per pubblicizzare accessori moda ti faccio a pezzi, per realizzare il servizio per la rivista glamour ti butto per le scale piena di lividi.

Queste foto sono solo alcuni esempi (qui ne trovate molti altri) di come le pubblicità e i servizi per le riviste di moda utilizzino la violenza contro le donne. Gli occhi neri, i lividi, il sangue, i cadaveri, una volta ritrovatisi nelle pagine patinate delle riviste e nello scintillante mondo del fashion subiscono anch’essi un processo di glamourizzazione.

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Estetizzazione della violenza. Commercializzazione della violenza. Banalizzazione della violenza.

Ti prendo i femminicidi, ti prendo gli stupri, ti prendo le percosse, li butto nel grande calderone della comunicazione commerciale, del capitalismo spietato e li faccio diventare belli.
Vestita Dolce e Gabbana la morte è bella.

Non solo bellissime anche da morte, perché l’imperativo dell’essere bella non viene mai meno per una donna, ma sono proprio la morte, la violenza nella loro versione estetizzata, ad apparire come belle.

La violenza usata per vendere diventa essa stessa un prodotto. Una linea di trucchi che ti permette di ottenere “l’effetto cadavere” non solo sta utilizzando la morte e la violenza per pubblicizzarsi, ma te le sta vendendo.

Immagine usata per sponsorizzare la linea cosmetica della MAC. I prodotti della linea riportano i seguenti nomi: Factory, Ghost Town, Juárez.
Immagine usata per sponsorizzare la linea cosmetica della MAC. I prodotti della linea riportano i seguenti nomi: Factory, Ghost Town, Juárez.

La violenza estetizzata diventa prodotto, vende e si vende. Nella rivista patinata quelle violenze che subiscono quotidianamente le donne diventano l’ultimo tassello di un processo di oggettificazione che alle donne toglie tutto: i vestiti, la possibilità di ritagliarsi un ruolo diverso da quello della mamma casalinga, la vita.

L’estetica della violenza conduce a una banalizzazione della stessa. Un uso strumentale e spettacolarizzato della violenza danneggia le donne. Le danneggia tutte, perché la violenza non è un fatto privato, ma nello stesso tempo non è nemmeno un prodotto, non è nemmeno un vessillo da sbandierare per farsi campagna elettorale, non è niente di cui si possa fare un uso strumentale.

Entrati nei grandi circhi mediatici femminicidi, stupri e violenze diventano dibattiti da salotti del pomeriggio, dove tra le foto delle “famose” in vacanza e l’intervista alla vip semisconosciuta che racconta come sia tornata in forma dopo la gravidanza e quanto l’esperienza della maternità l’abbia fatta sentire veramente donna, compare il servizio sul femminicidio, solitamente quello che ha avuto maggiore risonanza mediatica, e tra lo psichiatra che sforna diagnosi, Alessandra Mussolini che invoca le forche, la telecamera che si sofferma sulla maschera di dolore sul viso della conduttrice per poi scendere indugiando sul suo tacco 12, va in scena la “banalità del male”.

Violenza glamourizzata nelle riviste di moda, violenza per fare audience, violenza spettacolarizzata per saziare gli istinti voyeuristici di un pubblico sempre più affamato di particolari macabri. Questa è pornografia. Ma di quella brutta.

La “banalità del male”, quella incapace di radicalizzarsi, quella che rimane in superficie nutrendosi dei meccanismi di riproduzione di azioni e pensieri standardizzati, si combatte, diceva Hannah Arendt con il pensiero, con il senso critico.

In alcune immagini di campagne contro la violenza sulle donne ho rivisto quello stesso processo di estetizzazione delle pubblicità glamour. In quelle campagne ho rivisto l’atteggiamento voyueristico e di spettacolarizzazione della violenza messo in scena nei circhi del pomeriggio televisivo.

Io tutta questa differenza non la vedo. Quello che vedo in quelle immagini l’ho scritto qui.

Pubblicità marchio di abbigliamento e campagna sociale contro la violenza sulle donne
Pubblicità marchio di abbigliamento e campagna sociale contro la violenza sulle donne
Campagna “Victim of Beauty”, due campagne di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne, una di Kafa e l’altra di Intervita
Campagna “Victim of Beauty”, due campagne di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne, una di Kafa e l’altra di Intervita
Vogue Italia, campagna contro la violenza sulle donne del segretariato italiano degli studenti di Medicina
Vogue Italia, campagna contro la violenza sulle donne del segretariato italiano degli studenti di Medicina

Rifiutare un immaginario in cui la violenza appare estetizzata dal make-up che crea ferite e cicatrici, rifiutare la banalizzazione del racconto dei femminicidi così come viene presentato nei salotti televisivi, non significa nascondere le violenze o metterle a tacere, questo mi sembra scontato, ma ribadirlo forse è necessario, non vorrei che da letture superficiali venissero fuori erronee interpretazioni.
Credo che la rappresentazione della violenza non debba rimanere incastrata in clichè comunicativi. Le donne che subiscono violenza sono vittime di quella violenza, ma non dovrebbero rimaner incastrate in forme di rappresentazione che ribadiscono, rafforzano, esaltano quasi, questo status di vittime. Vittime di violenza, ma non vittime di una rappresentazione stereotipata che vuole che le donne dopo la violenza subita ne diventino martiri.

Quelle immagini di occhi neri mi danno una sensazione di fastidio, mi sembrano l’ennesimo uso strumentale della violenza e dei nostri corpi.
I modi di raccontare e rappresentare la violenza dovrebbero essere vari e non standardizzati, perché se è vero che le violenze contro le donne ripetono spesso gli stessi drammatici schemi, è anche vero che le donne sono diverse e la narrazione delle violenze dovrebbe spettare a loro. Questa e questa sono forme di narrazione e rappresentazione della violenza che trovo positive e utili. Tutto ciò che si serve di vittimizzazione, martirizzazione, estetizzazione ma soprattutto strumentalizzazione, non mi piace.
Questa è una mia idea, un mio esercizio critico, nel tentativo di sfuggire alla “banalità del male”.