Considerazioni sul “reddito di maternità” proposto da Mario Adinolfi e dal Popolo della Famiglia

Il 25 gennaio, sono stata al Teatro San Carlino di Brescia a sentire la presentazione del libro “O capiamo o moriamo” di Mario Adinolfi che, per l’occasione, ha fatto anche un concione politico, illustrando parte del programma elettorale del Popolo della Famiglia, partito di cui è presidente.

Credo che tutti e tutte siano a conoscenza delle esternazioni e del pensiero non proprio gay friendly del Marione nazionale, e penso che altrettanto note siano le sue posizioni un po’ retrograde sui “ruoli di genere”, ma ho sentito la necessità di andare a sentirlo dal vivo, allarmata da una delle misure previste nel suo programma elettorale, a sostegno della natalità: il “reddito di maternità”, indicato da Mario Adinolfi come prima misura che vorrebbe proporre in Consiglio dei Ministri, nel caso il suo partito dovesse conquistare qualche seggio parlamentare.

Secondo me, è opportuna una riflessione perché mi rendo conto che “di pancia”, il voler dare alle donne che scelgono di restare a casa con i propri figli, una volta diventate madri, un “reddito” di 1000 euro al mese, pare una misura sacrosanta, un’idea condivisibile e favolosa, perché, come ha detto lo stesso leader del PDF, a tutti noi piace l’immagine – anche artisticamente – bellissima di una donna con il suo bambino.

Occorre però non fermarsi alla superficie delle cose e alle “immagini bellissime”.

Oggi, lo sappiamo, il mondo del lavoro è ancora fortemente ostile alle donne: discriminatorio in accesso e discriminatorio nelle possibilità di carriera. Questo perché i datori di lavoro preferiscono non investire su dipendenti che potrebbe restare a casa in maternità anche una sola volta nella vita o che potrebbero usufruire di permessi vari, costrette dalle necessità famigliari che sono ancora oggi troppo spesso a carico delle sole donne.

Sappiamo anche però, che le giovani donne italiane si laureano in media con voti più alti e in numero maggiore rispetto ai giovani uomini e tutti ci rendiamo conto quanto siano sprecati talenti e intelligenze femminili che, nonostante l’ottima preparazione scolastica, accedono con maggior fatica al mercato del lavoro.

Ora io chiedo di riflettere su questo: come cambierebbe l’accesso al mondo del lavoro da parte delle donne, se venisse approvato il “reddito di maternità”, così come proposto da Adinolfi?

E’ ragionevole pensare che le difficoltà che incontrerebbe una giovane nel trovare lavoro aumenterebbero a dismisura, fino a diventare un’impresa impossibile. Quale datore di lavoro investirebbe mai risorse su una lavoratrice che egli avrebbe il timore di vedere sparire per anni e anni (se non per sempre) dall’organico per via di una maternità?

Ecco allora che quella che è stata presentata come “una possibiità di scelta” per le donne italiane, in quanto – ha detto Adinolfi al San Carlino il 25 u.s. – “non sarebbe un obbligo per nessuna”, di fatto si ritorcerebbe contro tutte quelle donne che non vogliono stare a casa a fare le mamme e basta. Dunque, che scelta sarebbe? Che senso avrebbe studiare e prepararsi, impegnarsi e sognare di costruirsi una professionalità se, a causa di una “possibilità di scelta” il mondo del lavoro chiudesse definitivamente le porte in faccia alle donne?

E’ vero che esistono donne che, potendo, preferirebbero stare a casa con i propri figli, invece che sgobbare in ufficio, o in fabbrica, precarie, sotto pagate e non valorizzate. Ma è vero anche che ci sono donne che amano il loro lavoro, che ci sono donne che vorrebbero conciliare maternità e lavoro, o donne che di figli non ne vogliono o non ne possono avere, o ancora donne che trovano parimenti gratificante avere un ruolo nel mondo del lavoro, sperimentare se stesse anche al di fuori del ruolo di madre. Che scelta avrebbero costoro? Nessuna.

E che costi sociali avrebbe una tale misura? Le donne, respinte dal mondo del lavoro, tornerebbero – forse – a fare più figli, ma con quale motivazione? E che senso avrebbe puntare sull’istruzione delle figlie femmine, sapendo in partenza che tanto studio e tanta bravura scolastica non avrebbero alcuno sbocco? Che tipo di equilibri avrebbero le coppie?

Il rischio è un ritorno indietro di parecchi decenni, ai tempi in cui si facevano studiare i figli maschi e si allevavano le ragazze affinché riuscissero ad acchiappare “Il buon partito”. Che effetti sociali avrebbero questi risultati? Donne indebolite, senza capacità lavorative, con scarsa istruzione, senza risorse economiche, alla ricerca non di un compagno di vita loro pari, ma di un “bancomat” con il quale crescere una famiglia.

E’ questo che vogliamo per i nostri figli e le nostre figlie? Io no di certo.

L’inverno demografico italiano è preoccupante davvero, ma, se vogliamo aumentare il numero di nascite, non dobbiamo farlo in un modo tanto offensivo per la dignità delle donne (ma anche degli uomini: non dimentichiamo che anche a tanti giovani uomini piacerebbe una compagna emancipata, libera di sceglierli per il loro valore e non per il loro denaro).

Perché non pensare a sgravi fiscali per le famiglie? A congedi di paternità? Ai nidi aziendali? A un mercato del lavoro più “a misura di famiglia”?

I figli sono una grande ricchezza per tutti ed è giusto che vengano cresciuti dalla coppia di genitori, che entrambi possano dividere onori e oneri, che sia data ai padri la possibilità di essere maggiormente presenti in famiglia e alle madri una reale opportunità di essere felici, in qualunque modo lo desiderino. Senza “immagini bellissime” misticheggianti e fasulle, liberi e libere da retoriche e da ritorni al passato.