Come si parla ( o no ) di quello che succede a Gaza. Da Twitter al corpo delle palestinesi.

5 agosto 2014

Farah Baker ha 16 anni e usa twitter. Niente di speciale, una qualsiasi adolescente.
Farah però vive a Gaza e negli ultimi giorni il suo account @Farah_Gazan è diventato un modo per mostrare al resto del mondo cosa sta accadendo in Palestina, in questi giorni, in questi anni.

Ho 16 anni e ho assistito a tre guerre, per come la vedo io questa è la più difficile

Farah ha pubblicato foto e video dei razzi israeliani che radevano al suolo le case vicino alla sua, attaccata al suo cellulare.
Poi l’aviazione israeliana ha colpito l’unica centrale elettrica di Gaza, la corrente se n’è andata e i suoi messaggi si sono fatti meno costanti.
La ragazza palestinese è seguita anche dalla BBC ed è stata anche intervistata da NBC News: all’emittente la 16enne ha raccontato la sua costante paura di morire e ha reclamato il diritto di vivere in Palestina.
Ha iniziato a tiwittare il 28 luglio, temendo che non avrebbe superato la morte. Lei si è salvata, ma in quella notte sono morti con un solo attacco già 100 suoi connazionali.

gaza farah

Il bilancio complessivo delle vittime segna finora 1.726 i caduti palestinesi e più di 4200 i feriti dall’8 luglio, giorno dell’inizio del conflitto: per la maggior parte civili. Sono invece 66 i morti israeliani, tra cui due civili.
Non è certo il primo conflitto israelo-palestinese a cui assistiamo, Farah a 16 anni ne ha già vissute tre di guerre nella striscia di Gaza, ma questo è forse il momento in cui si sono levate il minor numero di voci interessate da parte dei media e della politica internazionale.

Israele è per molti governi occidentali, in primis per gli USA, una roccaforte di valori antiarabi in Medio Oriente, fonte di controllo economico e politico per tutta l’area. Una Nazione che oggi è considerata un baluardo nella zona ad esempio per le relazioni con la comunità lgbtqi, grazie a mirate politiche di democratizzazione apparente, prima su tutte il pinkwashing.

Questo termine, diffuso per la prima volta dalla giornalista Sara Schulman sul New York Times nel 2011, è un neologismo che indica varie forme di marketing sociale, vale a dire dell’utilizzo di strategie e tecniche di marketing per spingere un target specifico a modificare il proprio atteggiamento nei confronti di una questione specifica.
Schulman usava il termine pinkwashing denunciando la cooptazione dei bianchi gay da parte delle forze politiche anti-immigrati e anti-musulmane in Europa occidentale e in Israele, e in particolare riferendosi alla strategia di Israele di occultamento della violazione dei diritti umani dei Palestinesi sotto la copertura di un’immagine di “modernità” data dalla vita gay israeliana.
Questo percorso verso la “modernità” inizia nel 2005 quando, con l’aiuto degli Stati Uniti, il governo israeliano lancia una campagna di marketing chiamata “Brand Israel”, indirizzata agli uomini tra i 18 e i 34 anni.
La campagna, come riportato dal The Jewish Daily Forward, serviva a dare ad Israele un’immagine “rilevante e moderna”. In seguito il governo espanse il piano marketing indirizzandolo alla comunità gay, per riposizionare completamente la propria immagine globale.
L’immagine amica e democratica di Israele, vicina alle retoriche sui diritti civili europee e statunitensi, ha fatto strategicamente breccia nel cuore dei media internazionali che oggi non riescono a considerare pari i due stati in conflitto, tradendo una sostanziale tendenza a giustificare o sminuire il ruolo di Israele nelle ultime settimane.

I giornali e i governi di quasi tutto il mondo ( eccezione fatta per alcuni Stati del Sud America ) hanno sostanzialmente giustificato l’attacco, i morti, l’eccidio in atto. Spesso semplicemente scegliendo di tacere, di non mettere il massacro di Gaza nell’agenda politica. Ancor più spesso scegliendo di raccontare, ma con parole e modi per niente neutrali.
Partiamo da Farah, perchè è una giovane donna che ha la nostra solidarietà nel tentativo di superare la paura della morte raccontandoci come si vive a 16 anni a Gaza. Partiamo da Farah, ma diamo uno sguardo a come è stato raccontato il conflitto in queste ultime settimane.
Prima di tutto, riprendendo un post di Baruda, c’è chi muore e chi viene assassinato.
I palestinesi muoiono. Gli israeliani vengono assassinati.
Una differenza sostanziale se si pensa che l’assassinio ha per forza un colpevole, la morte no.

asesinados o muertos

Richard Seymour sul Guardian poi ci fa notare come per ogni ospedale sventrato dalle bombe israeliane, per ognuna delle 84 scuole e i 23 punti medici colpiti, per i quattro ragazzini uccisi sulla spiaggia, per i corpi bruciati di 24 uomini, per una donna anziana in una pozza di sangue, per ognuna di queste offensive israeliane, la giustificazione del Governo passata dai media internazionali è stata: Hamas si nascondeva lì.
Come quando si giocava tutti alla caccia a Bin Laden, distruggendo l’Afghanistan.

Dunque si scelgono attentamente le parole, le posizioni da riportare, e il discorso si fa più complesso se guardiamo alla stampa mediorientale o Israeliana.
Secondo David Sheen, su Muftah

[…] Il livello di incitamento razzista anti-palestinese da parte dei maggiori esponenti politici, religiosi e culturali israeliani raggiunge ogni giorno nuovi picchi, ed ha assunto anche un tono misogino.

Durante gli ultimi giorni di luglio, i media israeliani hanno riferito che Dov Lior, rabbino capo dell’insediamento Kiryat Arba in Cisgiordania considerato “di ala conservatrice”, ha emesso un editto religioso sulle regole di ingaggio in tempo di guerra, dichiarando che secondo la legge religiosa ebraica, è lecito bombardare e “sterminare il nemico.” David Stav, rabbino capo della città di Shoham, considerato invece leader “liberale” del sionismo, in un editoriale definiva l’assalto a Gaza come una guerra santa, comandata dalla Torah stessa e che quindi deve essere spietata. Così, mentre le autorità religiose più o meno progressiste avallano la guerra in atto, tra i laici hanno iniziato a serpeggiare idee di attacchi più puntuali.

Il giorno dopo queste dichiarazioni di Lior e Stav, è emersa la notizia che il Comune di Or Yehuda, situato nella regione costiera di Israele, ha stampato e affisso uno striscione di sostegno ai soldati israeliani. La scelta dei termini dello slogan suggerisce lo stupro delle donne palestinesi. Il testo dello striscione recita: “Soldati israeliani, gli abitanti di Or Yehuda sono con voi! Sbattete la loro madre e tornate a casa sicuri dalle vostre madri.”
L’affissione dello striscione in Or Yehuda è venuto pochi giorni dopo la comparsa di un’immagine composita che suggerisce violenza sessuale nei confronti di Gaza, che è stata ampiamente condivisa da civili israeliani sulla popolare app WhatsApp. Nell’immagine, una donna con l’etichetta “Gaza”, che indossa un vestito islamico conservatore dalla vita in su e quasi nulla dalla vita in giù, ritratta in posa ammiccante e con uno sguardo allusivo verso l’osservatore. Il testo ebraico che accompagna l’immagine recita: “Bibi, finisci dentro questa volta! Firmato, i cittadini in favore dell’assalto da terra.” Di nuovo, un doppio senso è stato utilizzato per promuovere la guerra, con riferimento stupro. In ebraico, il significato colloquiale di “finire” è eiaculare.

gaza

Lo stupro di guerra è una pratica purtroppo trasversale a molti eserciti, ma è rilevante che sia la popolazione civile ad inneggiare e diffondere immagini e slogan che incitino alla violenza sulle donne palestinesi.
Proprio le donne, loro malgrado, sono diventate un oggetto comunicativo molto presente in questo ultimo conflitto. Prima di tutto perchè sono le vittime preposte della guerra.
Maya Mikdashi, su Jadalyiya, ha pubblicato l’editoriale “Gli uomini palestinesi posso essere vittime?” affrontando proprio il ruolo di vittime delle donne palestinesi a Gaza.

Un dettaglio sui morti di questi giorni, comunque, è ripetuto spesso dai mass media occidentali: la grande maggioranza dei Palestinesi morti a Gaza sono civili – e fonti dicono che si tratti di uno “sproporzionato” numero di donne e bambini”. […] Cynthia Enloe coniò il termine “womenandchildren” per riflettere sulle operazioni di genderizzazione dei discorsi per giustificare la guerra del Golfo. Oggi, dovremmo essere consapevoli di come il concetto di “womenandchildren” stia circolando in relazione a Gaza più ampiamente.
Questo concetto avalla molte questioni, due delle quali sono più importanti: la massificazione di donne e bambini in un gruppo indistinguibile unito dalla “sameness” ( ndr. “dall’identitcità” ) di genere e sesso, e la riproduzione del corpo maschile plaestinese ( e del corpo maschile arabo più in generale ) come se fosse sempre pericoloso. Così, lo stato dei maschi palestinesi ( una designazione che include ragazzi dai 15 anni in su, e a volte bambini di 13 anni ) come “civili” è sempre circospetta.

Le donne finiscono in un grande mucchio di vittime civili, insieme ai bambini, ai loro figli, intasano le bacheche di Facebook e fanno indignare, ma forse molto meno di un tempo, chi legge il giornale.
Gli uomini vengono esclusi dalla conta dei civili morti sotto i bombardamenti perchè ognuno di loro, che abbia 13 o 40 anni, possa essere percepito comunque come una potenziale minaccia, come una bomba ad orologeria.

Per usare un’infelice espressione diffusa durante l’ultima guerra in Iraq, “un effetto collaterale” necessario, che può non rientrare nei numeri dello sgomento.

Ma le donna palestinesi, sono anche e soprattutto madri in questo momento, per i media israeliani e i governi impegnati nel giustificarne i bombardamenti. Sono madri disattente, incapaci di non far diventare il proprio figlio un terrorista, o non farlo uscire a correre sulla spiaggia durante una tregua. Se da una parte sono le vittime capaci di espiare le colpe di un conflitto, sono anche l’incarnazione della colpa stessa.
INCITE, donne e persone trans di colore contro la violenza, ha diffuso una nota, tradotta da Incrocidegeneri in italiano, intitolata “La fine del sionismo è una questione femminista”, in cui scrive

[…] La parlamentare israeliana Ayelet Shaked non ha tentato di presentare gli omicidi dei bambini palestinesi e delle loro madri come degli sfortunati, sproporzionati “effetti collaterali” – li ha apertamente rivendicati asserendo che le donne palestinesi devono essere uccise anch’esse, in quanto mettono al mondo dei “piccoli serpenti”.
Questo commento riflette una infrastruttura israeliana progettata per sostenere alti tassi di aborti spontanei attraverso il blocco di risorse vitali come l’acqua e i rifornimenti medici, costringendo le donne in travaglio ad attendere ai posti di blocco militari durante il tragitto per l’ospedale, e generalmente creando condizioni inumane e invivibili per le palestinesi.
Questi ultimi attacchi omicida ai/alle palestinesi nella Striscia di Gaza non ha solo tolto la vita a migliaia di palestinesi, ma ha anche aumentato il numero di aborti spontanei, travagli pre-termine e morti in utero. Le donne israelo-etiopi, molte delle quali ebree, sono state sottoposte a iniezioni contraccettive obbligatorie senza il loro consenso.La fine del sionismo è una questione di giustizia femminista e riproduttiva.

Oggi è scattata una nuova tregua umanitaria di 72 ore.
Ma gli eccidi difficilmente conoscono tregue, quando smettono le bombe, continuano ad operare con la cultura, il linguaggio manipolatorio, le minacce, lo svilimento della vita umana e l’uso di retoriche vittimizzanti capaci di mimetizzare un’argomentazione mediatica strumentale.
Gli articoli riportati in questo post sono alcuni degli interventi più interessanti di queste ultime settimane, mentre i quotidiani nazionali continuavano a mettere le notizie da Gaza subito dopo quelle del maltempo.
Riportarli serve a diffondere contributi validi, ma anche a prendere parola sui fatti di Gaza di questa estate.Essere femministe non serve a niente se non diventa un atto politico con una precisa presa di posizione nel mondo.
E non spendere una sola parola sugli avvenimenti di questi giorni perchè “non direttamente legati alla questione femminista” sarebbe solo miope, perchè al di là della ovvia valutazione di una strage durata settimane nell’indifferenza globale, ci sono anche molte questioni di genere aperte tra i tweet e i corpi delle palestinesi.

2 Risposte a “Come si parla ( o no ) di quello che succede a Gaza. Da Twitter al corpo delle palestinesi.”

I commenti sono chiusi.