Come si guarda una donna grassa? Da Marina Abramovich a Morris-Cafiero, la violenza sui corpi femminili trasformata in arte

Nel 2010 Haley Morris-Cafiero, fotografa professionista e professoressa del Memphis College of Art, era a Times Square e voleva una foto ricordo.
Così si è fatta un autoscatto con la sua macchina analogica.
Quando ha sviluppato la foto, è rimasta colpita da un particolare: poco distante, un ragazzo la osservava con un’espressione quasi disgustata, facendosi chiaramente beffe di lei.

Non era uno sguardo totalmente nuovo per Haley, abituata a vederne di quelle facce per strada al suo passaggio, ma soprattutto al mare, le conosce quelle espressioni perplesse come se si chiedessero: “non ti vergogni?” “perchè non ti copri?” “come hai fatto a ridurti così?”.

Cos’è che muove tutta questa riprovazione?
Il suo peso: Haley Morris-Cafiero è grassa
e questo non passa esattamente inosservato in chi la circonda.

Haley però, è riuscita a farsi ispirare da queste esperienze di quotidiana crudeltà e riversale in un interessante lavoro creativo. Ha iniziato a fotografarsi per strada cercando di cogliere proprio quegli sguardi che un tempo avrebbe rifuggito. Cercando di immortalare quegli sconosciuti i cui pensieri sono così limpidi davanti al suo corpo.
Da qui nasce Wait Watchers, progetto fotografico che ha collezionato molta attenzione in tutto il mondo.

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Scrive Haley Morris-Cafiero su Kickstarter:

Dopo che le mie foto hanno avuto una diffusione virale, ho scoperto che la maggior parte degli articoli che le diffondevano aveva la sezione dei commenti piena di migliaia di anonimi che criticavano il mio corpo, i miei vestiti, la mia faccia, i miei capelli. 
I commenti critici poi sono iniziati ad arrivare via email. La maggior parte dei commenti e delle mail diceva che la mia vita – e in alcuni casi il mondo – sarebbe stato migliore se avessi perso peso e mi fossi messa un po’ a posto. Le critiche non richieste mi hanno ispirato la fase successiva del progetto Wait Watchers.

Fase che ha previsto iniziare a viaggiare in diversi luoghi del mondo. Da New York a Berlino, Haley ha realizzato degli autoritratti molto intimi sebbene non la ritraggano sola o in pose particolarmente intense, ma che traggono la loro forza dal fatto di non concentrarsi su di lei, come qualsiasi autoritratto, ma su come le altre persone la percepiscono.

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Per un’artista l’uso del corpo può avere effetti straordinari, ancor più quando si mette in gioco in prima persona e compromette la sua identità mettendola a servizio del progetto artistico.
Mettere il proprio corpo al centro dell’attenzione e ritrarre proprio quell’attenzione oggi è un atto da valorizzare e condividere.
Ne parlavamo a proposito dell’ultima installazione di Yolanda Dominguez, Gallery, dicendo

Un’opera, quella di Dominguez, che pretende una presa di responsabilità da chi assiste allo sfruttamento del corpo femminile e alla sua violazione, in qualsiasi sua forma, pensando di non partecipare allo stesso processo: fingere di non aver scelto di vedere, di partecipare allo sfruttamento, alla molestia, alla violazione, non dovrebbe più essere consentito. Compromettersi, per rivelare quanto lo spettatore stesso lo sia.

Anche nel caso di Morris-Cafiero l‘artista deve compromettersi, esporsi in prima persona ed individualmente perché, paradossalmente, il coinvolgimento sia collettivo.
Così quando espone il suo corpo agli sguardi esterni, riuscirà a coglierne quelle reazioni che sono il vero motore dell’opera d’arte.

Mi viene in mente Rhytm 0 di Marina Abramovich, performance del 1974, in cui l’artista propose uno degli esperimenti più arditi della storia dell’arte. Abramovic accoglie il pubblico in una stanza, dove ha preparato 72 oggetti su un tavolo, oggetti di piacere (piuma, bottiglie, scarpe, ecc), ma anche oggetti di dolore (fruste, catene, martelli, ecc) e persino oggetti di morte (pistola, lamette). Il pubblico può usare qualsiasi di quegli oggetti sul corpo dell’artista, che per 6 ore consecutive si sarebbe privata della sua volontà e messa totalmente a disposizione del pubblico, a cui erano state date solo queste istruzioni:

Sul tavolo ci sono 72 oggetti che potete usare su di me come meglio credete: io mi assumo la totale responsabilità per sei ore. Alcuni di questi oggetti danno piacere, altri dolore.

 

rhytm0Dopo una prima incertezza, il pubblico si scatena. Chi taglia i vestiti di Marina con le lamette, chi invece le usa per tagliarle la pelle ormai nuda. Alcuni uomini iniziano a succhiare il sangue dalle sue ferite, con un approccio quasi da violenza sessuale. Parte dei presenti allora si mette a difesa del corpo dell’artista, formando un cordone di protezione, ma arriva un altro momento davvero estremo: qualcuno mette la pistola, carica, in mano di Abramovich, diretta al collo, con un dito della stessa artista poggiato sul grilletto. Nessuno le fa premere il grilletto, ma la paura di morire è palpabile.

Questa performance ha un quoziente di rischio, e di fascino, infinitamente più ampio di fotografare gli sguardi giudicanti di chi ci sta intorno, ma entrambe le opere muovono da uno stesso assunto, lo stesso che coinvolge anche Gallery di Dominguez, ossia: il mondo partecipa alla creazione dell’arte come alla creazione di noi stesse, della nostra identità, della percezione che abbiamo di noi. Il potere degli altri è immenso e siamo inermi sotto i loro sguardi, violate dalla loro perversione, minate dalla loro ferocia. Questi “altri” sono una collettività di uomini e donne, agenti e complici della stessa violenza.

Una violenza fatta in ogni caso di sopraffazione, che si tratti di donne avvenenti derubate della loro intimità, di donne inermi di fronte a una società che le violenta, di donne grasse come Haley Morris-Cafiero che non possono in nessun modo fermare gli sguardi che vengono loro rivolti ogni giorno.
Si parla di un sistema di sfruttatori e sfruttati, di dominatori e corpi occupati.

Qualche tempo fa abbiamo trattato di un video circa le molestie per strada, lo street harrasment, un video parziale e accusato di razzismo, ma che comunque ha diffuso attenzione sulla percezione dei corpi femminili in strada.
Anche Wait Watchers parla di questo, solo che il corpo è diverso, non è “normato”, è fuori dal canone principale, il peso forma, e dunque immediatamente collegato a scarsa determinazione, pigrizia, schifo, goffaggine, nessuna sessualità, necessità di prenderne le distanze.  E’ l’altra faccia della stessa medaglia degli approcci sessuati a chi invece risponde al canone, pur non mostrandosi disponibile allo sguardo.

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E’ la faccia di quel ponderalismo, quella discriminazione legata al peso, tanto difficile da superare e che ha risvolti ancora tremendamente violenti. 

Lo stigma del peso, il marchio di disapprovazione sociale, è il segno della diversità che porta all’alienazione di alcune categorie di individui e, dunque, all’emarginazione. Non è certo la diversità in sé ad allontanare un individuo dalla società, ma la percezione che di questa hanno gli appartenenti al canone.

Lo stigma del peso ha anche delle realizzazioni pratiche ( la barella di un’ambulanza o il sedile di un aereo sono a volte troppo piccoli per accogliere una persona fuori norma ), verbali ( insulti, nomignoli ) e fisiche ( bullismo, aggressioni ).

In questo caso una realizzazione pratica è anche lo sguardo riservato a chi, come Haley, dichiara di amare il suo corpo così come è, ma non se ne vede riconosciuta il diritto.