Come il femminismo divenne ancella del capitalismo e come possiamo riprendercelo

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una traduzione di Chiara C.

da un articolo di Nancy Fraser
pubblicato sul sito del quotidiano britannico The Guardian
il 14 ottobre 2013.
Nancy Fraser è una filosofa e teorica femminista americana.

 

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Nancy Fraser

Come femminista ho sempre pensato che lottando per liberare le donne stavo anche costruendo un mondo migliore, più egalitario, giusto e libero.

Ultimamente però ho iniziato a preoccuparmi che gli ideali portati avanti dalle femministe stiano in realtà servendo scopi ben diversi. Più precisamente, mi preoccupo che la nostra critica del sessismo stia ora fornendo la giustificazione per nuove forme di disuguaglianza e sfruttamento.

Temo infatti che, per un crudele scherzo del destino, il movimento per la liberazione delle donne si sia invischiato in una relazione pericolosa con gli sforzi neoliberisti per costruire una società basata sul libero mercato. Questo spiegherebbe come mai idee femministe, sulle quali una volta si fondava una visione radicale del mondo, siano ora espresse sempre più spesso in termini individualistici.

Mentre una volta le femministe criticavano una società basata sul carrierismo, ora raccomandano alle donne di “farsi avanti”. Il movimento che una volta metteva davanti a tutto la solidarietà sociale ora celebra le imprenditrici. Una prospettiva che assegnava valore al lavoro di cura e all’interdipendenza delle persone ora incoraggia il progresso individuale e la meritocrazia.
Alla base di questi cambiamenti c’è una trasformazione radicale della natura del capitalismo. Il capitalismo gestito dallo stato dell’era del secondo dopoguerra ha ceduto il passo a una nuova forma di capitalismo “disorganizzato”, globalizzante, neoliberista. La seconda ondata femminista, emersa come critica della prima forma di capitalismo ha finito per diventare l’ancella della seconda.

115218811-7fae2024-b751-47ab-a543-32f3f3c144feCol senno di poi, capiamo come il movimento per la liberazione delle donne abbia aperto la porta a due diverse possibilità di futuro. La prima presagiva un mondo in cui l’emancipazione di genere sarebbe stata accompagnata da processi di democrazia partecipativa e solidarietà sociale. La seconda invece prometteva una nuova forma di liberismo che potesse garantire alle donne, come agli uomini, i beni dell’autonomia individuale, una maggiore possibilità di scelta e un progresso basato sulla meritocrazia.
In questo senso possiamo dire che la seconda ondata femminista sia stata ambigua, poiché compatibile con entrambi questi scenari e quindi soggetta a due differenti realizzazioni della storia.
Per come la vedo io, l’ambiguità del femminismo si è risolta negli ultimi anni a favore del secondo scenario, quello liberale e individualista. Ma questo non è successo perché ci siamo fatte passivamente sedurre dal neoliberismo. Al contrario, noi stesse abbiamo contribuito con tre importanti idee a questo fenomeno.

Il primo contributo fu la critica del “reddito famigliare“, cioè dell’ideale di una famiglia basata su un uomo che lavora e una moglie che sta a casa. Quest’idea di famiglia era infatti il cardine del capitalismo statale. La critica femminista di questo ideale ora serve per legittimare la flessibilità.
image021Dopotutto, il capitalismo odierno dipende grandemente dal lavoro salariato femminile, in particolare dai lavori mal remunerati nel manifatturiero e nei servizi, svolti non solo da giovani donne single ma anche da donne sposate e con bambini, non solo da donne di colore, ma praticamente da donne di tutte le nazionalità e etnie. Mentre le donne entravano nel mercato del lavoro mondiale l’ideale del capitalismo di stato, il reddito famigliare, è stato rimpiazzato da un ideale più moderno, apparentemente approvato dal femminismo: la famiglia in cui entrambi, uomo e donna, lavorano.
Poco importa che questo ideale nella pratica comporti salari più bassi, minore sicurezza del lavoro, peggiori condizioni di vita, marcato aumento delle ore di lavoro a parità di stipendio, dilagare di doppi turni, spesso anche tripli o quadrupli, e aumento della povertà, sempre più prevalente nelle famiglie che hanno a capo una donna. Il neoliberismo ha trasformato un bastone in una carota raccontandoci la storia dell’empowerment femminile. Giustificando lo sfruttamento in base alla critica femminista del reddito famigliare ha messo il sogno dell’emancipazione delle donne a servizio del motore dell’accumulazione capitalista.

Passiamo alla seconda idea contribuita dal femminismo all’ethos neoliberista. Nell’era del capitalismo statale il femminismo criticava, giustamente, una visione politica limitata, concentrata talmente tanto sull’ineguaglianza di classe da non riuscire a vedere le ingiustizie “non economiche” come la violenza domestica, le molestie sessuali e la limitazione dell’autonomia riproduttiva delle donne. Le femministe rifiutarono questa visione meramente economicistica in favore della politicizzazione del personale.
Così facendo ampliarono il discorso politico per contrastare le gerarchie basate sulla costruzione della differenza di genere. L’idea era di lottare per una giustizia che fosse sia economica che culturale ma il risultato è stato quello di privilegiare questioni di identità di genere a discapito di quelle materiali. Ancora peggio, questa versione femminista di politica identitaria ha combaciato perfettamente con l’ascesa di un neoliberismo il cui primo desiderio era di cancellare ogni ricordo di uguaglianza sociale.

In pratica, abbiamo fatto un assoluto della critica alla cultura sessista proprio nel momento in cui le circostanze avrebbero richiesto di raddoppiare gli sforzi per un’analisi critica dell’economia politica.

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Infine, il femminismo ha contribuito una terza idea al neoliberismo: la critica al paternalismo dello stato sociale. Sebbene fosse innegabilmente una critica progressista nell’era del capitalismo statale, da allora si è trovata in accordo con la guerra dichiarata dal neoliberismo allo stato “balia” e la più recente cinica esaltazione del terzo settore. Un perfetto esempio di questo si trova nel micro credito, che consiste nell’elargire piccoli prestiti a donne che vivono in povertà nel sud del mondo. Il micro credito è stato esaltato come un’alternativa dal basso alla soffocante burocrazia dei programmi statali, l’antidoto femminista contro la povertà e l’oppressione femminile. Dietro tutto questo si nasconde una coincidenza inquietante che non abbiamo notato: il micro credito è esploso nello stesso periodo in cui gli stati abbandonavano riforme strutturali per combattere la povertà, sforzi che non possono essere rimpiazzati da accesso al credito su piccola scala. Anche in questo caso un’idea femminista è stata appropriata dal neoliberismo.

L’idea originaria di democratizzare il potere statale a favore dei cittadini è ora usata per legittimare l’avanzata del mercato e la ritirata dello stato.
In tutti questi casi l’ambiguità del femminismo si è risolta a favore dell’individualismo (neo)liberista.

L’altra possibilità di futuro, quella solidaristica, potrebbe essere ancora viva. La crisi in cui viviamo ci offre l’opportunità di recuperarla ancora una volta, riconnettendo il sogno di liberazione delle donne con la visione di una società solidale. Per fare ciò noi femministe dobbiamo troncare la relazione pericolosa con il neoliberismo e riappropriarci di queste tre idee per i nostri scopi.

Per cominciare potremmo rompere il falso legame tra la nostra critica del reddito famigliare e il capitalismo flessibile, lottando per un modo di vivere che non ruoti attorno al lavoro salariato ma valorizzi attività non retribuite, come le attività di cura, ma non solo. Come seconda cosa potremmo interrompere il passaggio che porta dalla nostra critica dell’economicismo a una politica identitaria, integrando la lotta per trasformare lo status quo basato su valori maschilisti con una prospettiva di giustizia economica.
Infine, potremmo recidere il nesso fuorviante tra la nostra critica della burocrazia e il fondamentalismo del libero mercato riappropriandoci della democrazia partecipativa per rafforzare i poteri pubblici necessari a regolare il capitale per garantire giustizia.

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