Che c’entra la salute col “Prestigio della maternità”?

Gentile Ministra Lorenzin,

con divertita sopresa leggo le sue dichiarazioni al quotidiano La Stampa. Divertita perché mi chiedo se la sua sia semplice ingenuità o genuina faccia di bronzo, espressione scientifica indicante la particolare capacità di fare finta di non capire, pure dinnanzi all’evidente fiasco (il sito del FertilityDay è stato svuotato dai contenuti poche ore dopo il via della campagna).

In seguito alla valanga di proteste provenienti dalla società civile e dai social Lei risponde che, in quanto Ministra della Salute, lo scopo di questa campagna è principalmente sanitario e volto a informare il pubblico sui fattori che possono causare l’infertilità. Inoltre, nell’intervista Lei ribadisce che la campagna di comunicazione associata al FertilityDay non intende assolutamente rivolgersi alle donne per incitarle a procreare. Lei sostiene, insomma, che gli aspetti economici, politici e sociali non la riguardano e che il suo unico scopo rimane l’informazione corretta sulla salute sessuale e la fertilità, che definisce tra l’altro come un argomento tabù.

Tuttavia, Ministra, Lei si contraddice all’interno della stessa intervista invocando, a sostegno della sua iniziativa, l’allarme demografico e la crescita zero da qui al 2050.

Cara Ministra Lorenzin, mi lasci aggiungere un paio di cose a quelle migliaia di giustissime osservazioni che le sono già state rivolte. Premetto che devo avere un problema percettivo perché a me la campagna di comunicazione è sembrata proprio intrisa di nazionalismo e di sessismo. Peggio, tutto il Piano Nazionale mi è parso come un’impostura sociofarlocca dove si incrociano curvedemografiche, slogan populisti e idealizzazioni, neanche troppo nascoste, di una presunta epoca felice dove si figliava di più per il bene della Patria.

Ma non sono la sola e allora deve esserci un problema di comprensione forte tra Lei e la popolazione che ha interpretato le cartoline come insulti. Mi è sembrata anche una presa per il culo, mi scusi il francesismo. Come, per esempio, nello slogan “Genitori giovani. Il modo migliore per essere creativi”. Questa la chiama informazione sulla fertilità? Io ci leggo proprio, sottointeso, “poco importa la crisi del lavoro, fate dei bébé che passa tutto”. Per non parlare di quella fottuta clessidra e di tutto quello che rappresenta, per le donne di oggi e di ieri: il richiamo costante all’orologio biologico. L’essere continuamente rinviate alla nostra capacità di concepire e procreare. Crede davvero che la famosa “vicina/parente impicciona che chiedeva insistentemente novità alla sposina” (p.38) non esista più? O che le donne non sappiano che più l’età avanza e più i progetti di genitorialità QUANDO e SE esistono perché, come ricordato da altr*, posso anche non volerne di figli e lo Stato non deve impicciarsene possono frantumarsi contro la barriera dell’infertilità?

Parliamo anche di termini: nel documento di 137 pagine del Piano Nazionale per la fertilità la parola “maternità” appare 58 volte, la parola “genitorialità” 12 e “paternità” compare appena 9 volte. La parola “donna” si ritrova 109 volte nel testo contro 28 “uomo”. “Coppia” e “coppie” appaiono rispettivamente 57 e 49 volte. A un primo livello di metanalisi, dunque, il documento è ampiamente rivolto alle donne e alla maternità, quando da anni molte categorie della società civile si battono per far emergere il concetto di genitorialità e quindi di co-responsabilità. Maternità al centro, nonostante il fatto che lo studio dell’evoluzione della struttura famigliare tenda a mostrare che la coppia è oggi al centro del processo decisionale che porta al progetto genitoriale. Progetto condiviso, appunto, per cui cambiano gli assiomi sui quali la famiglia è concepita a monte.

Riflessione che non appare per nulla nel testo, che fa anzi scomparire i padri dal disegno genitoriale, facendoli ricomparire unicamente per informarli dell’importanza di preservare i sacri spermatozoi.

Leggermente offensivo, non crede?
Ma torniamo a noi: il documento sottolinea, anche se con poca enfasi, l’asimmetria che ancora regna sulla distribuzione dei ruoli tra casa e famiglia (paragrafo 2.4) e il carico di lavoro che pesa sulle madri lavoratrici. In sociologia della famiglia questo fenomeno è anche chiamato la “doppia giornata di lavoro”. Doppia giornata, capisce?

Quei 75 minuti (p.32) che separano la fine della giornata lavorativa delle donne rispetto agli uomini non sono solo da considerare in termini di minuti/ore e di apporto materiale: essi costituiscono il carico fisico e mentale che le donne si accollano nella maggior parte delle questione legate alla gestione della casa e della famiglia. Gli studi sul care problematizzano bene questo scarto che non è solo temporale ma anche psichico e
immateriale: i figli non devono solo essere vestiti e nutriti ma anche accompagnati, amati, seguiti, incoraggiati. Quello che statisticamente è uno scarto temporale si rivela, all’analisi, una giornata senza inizio, senza mezzo e senza fine: un impegno continuo composto da infinite piccole cose da fare, da dire e da ricordare, prima, durante e dopo il cosiddetto lavoro remunerato.

Nel testo trovo inoltre scritto che la maternità “sviluppa l’intelligenza creativa e rappresenta una straordinaria opportunità di crescita. L’organizzazione ingegnosa che serve a far quadrare il ritmo delle giornate di una mamma, la flessibilità necessaria a gestire gli imprevisti, la responsabilità e le scelte implicite nel lavoro di cura, le energie che quotidianamente mette in campo una madre sono competenze e potenziali ancora da esplorare e capire come incentivare e utilizzare al rientro al lavoro” (p.20). Argomento riproposto qua e là nel documento, che sembra insistere sulla maternità come competenza da valorizzare nel mondo del lavoro.

Trovo queste affermazioni interessanti ma troppo problematiche a causa dei presupposti su cui si basano. Innanzitutto si parla sempre e solo di maternità e di madri, come se il lavoro di cura fosse biologicamente destinato alla femmina, cui lo statuto eventuale di madre farebbe di lei la sola depositaria dell’esperienza genitoriale. Inoltre non si capisce bene in che modo tale esperienza vuole essere valorizzata nel mondo del lavoro: lo sa, Ministra Lorenzin, che le donne sono già ampiamente spinte verso i lavori di cura? Solo per il fatto di essere donne? In Italia e nel mondo esistono schiere di infermiere, educatrici, maestre della scuola primaria, assistenti domestiche, donne delle pulizie, badanti. Questo perché l’assioma donna- cura è ancora performativo nell’orientamento professionale. Ma il problema è che essere donna e madre non è sinonimo di competenza.

Tante donne diventano madri, chi per scelta e chi no, ma ciò non le predispone naturalmente ad occuparsi, bene, del prossimo. Basti pensare a tutti i casi di maltrattamenti e abusi nelle scuole, nelle case di riposo, in famiglia: ogni volta la costruzione mediatica tende a disegnare la donna coinvolta come un “mostro”, tanto è incapace la società di immaginarsi una figura femminile maltrattante. Ma episodi di questo genere accadono.

Quindi no: sono tendenzialmente d’accordo con l’idea che il lavoro di cura deve essere valorizzato nella vita pubblica, ma non in quanto caratteristica riducibile al femminile. Il lavoro di cura dovrebbe essere piuttosto liberato da futili determinismi biologici e incentivato in quanto paradigma di cambiamento di una società sempre più liberista e meno solidale: tutti possono fare il lavoro di cura e l’esperienza della genitorialità può giovare agli uomini e alle donne. La sfida sarebbe appunto quella di individuare le competenze derivanti dai ruoli di cura e renderli modelli positivi per tutt*,
non di rinforzare l’essenza femminile degli stessi. Invece, l’essenzialismo che si legge nelle righe del Piano, tra espressioni come “prestigio della maternità” o “recuperare il valore sociale della maternità”, spaventa per la totale imprecisione nell’analisi di cause e effetti.

Ed è qui che volevo venire, come da titolo: in quale modo quest’interpretazione a dir poco insultante del calo demografico italiano può tradursi in informazione corretta sulla fertilità, la salute sessuale e la prevenzione? Mi spiego: nel contributo del Tavolo Consultativo il testo comincia a trattare le questioni riguardanti la fisiologia maschile e femminile, le malattie invalidanti e la salute sessual solo a partire da pagina 46, cioè dal capitolo terzo. Nelle 45 pagine precedenti, invece, si assiste impotenti a interpretazioni quantomento fantasiose sulle cause del calo demografico: in particolare, si accenna alla mascolinizzazione femminile ad opera del mondo del lavoro, all’individualismo
narcisistico delle donne, cui verrebbero meno i “modelli di identificazione tradizionali” (p.31), nonché a una presunta attitudine fondamentalmente sfiduciosa verso lo Stato e la cosa pubblica, che sarebbe da combattere diffondendo “good news” sulla maternità (wait a minute, good news what?!?).

Tutto ciò senza entrare nel merito di tutte quelle ragioni storiche, politiche, economiche e sociali per cui gli italiani fanno meno figli – di cui si accenna nel testo indicando genericamente che si dovrebbe rafforzare il welfare- e senza contare i figli si fanno o non si fanno, anche per scelte di vita. Compito dello Stato sarebbe unicamente quello di incentivare e promuovere politiche sociali per coloro che scelgono la genitorialità ma che “rimandano” per motivi puramente economici. Me lo spieghi di nuovo, Signora Ministra, esattamente in che modo questo piano formativo/informativo, basato su presupposti fondamentalmente ideologici, affronterebbe la fertilità dal punto di vista della salute?
Dall’analisi del testo:

Piano Nazionale per la Fertilità
http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2367_allegato.pdf

Piccolo riferimento agli studi sul “care”:
Politiques du Care, in Rivista Multitudes 2009/2-3 (n° 37-38):  http://www.cairn.info/revue-multitudes-2009- 2.htm

Damamme Aurélie, Paperman Patricia, « Care domestique : des histoires sans début, sans milieu et sans fin », Multitudes 2/2009 (n° 37-38) , p. 98-105 URL : www.cairn.info/revue-multitudes- 2009-2-page- 98.htm. DOI : 10.3917/mult.037.0098.

 

Valentina Tomasini