Carmen Maria Machado: l’amore, la violenza e l’archivio | In the Dream House

A volte le storie sono distrutte, altre volte non vengono nemmeno verbalizzate. In entrambi i casi nelle nostre storie collettive qualcosa di molto significativo va irrevocabilmente perduto. (…) Inserire o escludere qualcosa dall’archivio è un atto politico.
(Carmen Maria Machado, In The Dream House)

Una scuola in Texas sta valutando — l’affaire è scoppiato a febbraio — se rimuovere dai suoi scaffali l’ultimo libro di Carmen Maria Machado perché, dice uno dei genitori coinvolti, «lasciare che uno studente legga quel libro può essere considerato abuso di minore».

«La scuola raramente dà un’educazione sulle relazioni. Agli adolescenti, spesso, non viene insegnato che la gelosia estrema non è romantica, ma il segno di una relazione malsana. Le parti del mio libro lette ad alta voce da quel genitore indignato fanno parte di una storia più grande, che racconta cosa significa essere così innamorati, o così immersi nella lussuria — o entrambe le cose — da lasciare che qualcuno ti tratti male», spiega Machado sul New York Times.

“In the dream house” (Graywolf, dicembre 2020), il libro in questione, contiene scene di sesso, non particolarmente esplicite, non scandalose, non pornografiche. Sesso, sesso queer, chiamato con il suo nome. Con il piacere, la carne, la tenerezza, gli odori e i dolori che porta. Tutto il libro è a quest’altezza: quella del reale. Quella di “In the Dream House” è una storia d’amore vera, una storia di abuso vero che l’autrice ha vissuto una decina di anni fa.

“In the dream house” parla di amore e di violenza. Di fragilità, di romanticismo. Di storia, di archivio, di politica. E di letteratura. È un memoir — un «atto di resurrezione» lo definisce Machado, un tentativo di costruire un dialogo — con il quale, scrive, «inserisco nell’archivio il fatto che l’abuso domestico tra partner che condividono un’identità di genere è possibile e frequente». Un memoir che è anche un documento, un tentativo storiografico, una sorta di compendio, un esercizio di stile.

Sembra tanto? Sì è tanto. Machado c’è riuscita. Con giustezza.

Carmen Maria Machado, classe 1986 è una scrittrice americana di origine cubana. Negli ultimi anni il suo lavoro è stato riconosciuto da più parti: nel 2017 con “Her Body and Other Parties” è arrivata tra i finalisti del National Book Award che, per i non specialisti, è un premio che negli Stati Uniti è stato assegnato a Philip Roth, William Faulkner, Saul Bellow o Ray Bradbury, tra gli altri.

Scritto in seconda persona, “In the Dream House” è uscito nel 2020 ed è strutturato in capitoletti ai quali corrisponde un ricordo o una riflessione, interpretati come un genere letterario o cinematografico: un patchwork di stili e di tecniche, tra cui il librogame, il fantasy, il romanzo pulp, la possessione. Questo meccanismo è, in sé, un tentativo di inserire il personale in una narrazione globale.

Il testo è un dialogo, prima di tutto personale — Machado racconta alla seconda persona, la Carmen che ha vissuto la relazione, che interagisce con l’”io”, l’autrice oggi — un dialogo con chi legge — «Se ne hai bisogno, questo libro è per te», si legge all’inizio — e un dialogo con l’archivio.

L’abuso domestico e la violenza sulle donne esistono probabilmente da quando esiste il mondo, scrive Machado. Come concetto, come spazio di riflessione (e azione) l’idea ha una cinquantina d’anni. L’abuso domestico (e la sua storia) nelle relazioni queer, invece, è più recente: i primi lavori in questo senso risalgono agli anni Ottanta.

Nel testo di Machado il rimbalzo è costante tra la storia personale — il memoir — e il tentativo di comparare, cercare ed entrare nell’archivio. Quale archivio? Quello della storia della violenza domestica nelle coppie queer: il testo è costellato di riferimenti, citazioni, note, racconti. Una capitolo è vero lavoro storiografico nel quale Machado passa in rassegna la letteratura sull’argomento (gli abusi nelle relazioni queer) e ci elenca le opere che cercano di dare una voce a queste storie.

Come la storia di Debra Reid: parte del “Framingham Eight”, un gruppo di otto donne detenute per aver ucciso i rispettivi partner violenti che salirono agli onori della cronaca nel 1992 per sostenere la tesi dell’autodifesa. Se il messaggio era chiaro e “facile” da far passare, meno semplice fu per Reid, unica nera e unica lesbica del gruppo. Le pene di tutte furono commutate o annullate, tranne per Debra, per lei ci volle più tempo, perché il concetto di “battered woman” voleva dire una cosa: una donna bianca picchiata e abusata, da un uomo.

O quella di Alice Mitchell, che nel 1892 sgozzò la sua amante, Freda Ward in una carrozza a Memphis perché Freda l’aveva lasciata. La stampa non sapeva come raccontare la storia: «Nel suo libro “Sapphic Slashers”, Lisa Duggan scrive: “I giornalisti trovarono difficile abbozzare una trama chiara o assumere una posizione morale coerente: Alice era una povera, indifesa vittima di una malattia mentale, o era una femmina mostruosa guidata da moventi erotici e aggressivi maschili? Un omicidio d’amore che coinvolgeva due ragazze presentava una svolta sorprendente che confondeva i ruoli di genere di cattivo e vittima”».

Oppure, ancora, il riferimento al bellissimo racconto/poema di Jane Eaton Hamilton, Never Say I Didn’t Bring You Flowers.

Perché esiste un mito — non un assoluto — un mito, un pregiudizio, una speranza: «Trovare il desiderio, l’amore, la gioia nel quotidiano senza le stronzate dei maschi che normalmente lo accompagnano è una definizione operativa abbastanza decente di paradiso», scrive Machado.

Per Machado, la dinamica di base di ogni relazione abusiva — la tendenza della vittima ad incolpare se stessa e a presumere di avere il potere di cambiare le cose — è aggravata dal silenzio, totale o parziale, che circonda le relazioni lesbiche abusanti. Sia chiaro: Machado non dice che la violenza è più complicata o diversa se la pratica una donna; sostiene che è più difficile da identificare perché chi usa violenza magari ha condiviso con te le stesse pratiche di decostruzione di genere, perché magari ha subito la stessa violenza, perché ha rifletto alla stessa maniera nella quale hai riflettuto tu.

Questo archivio in costruzione secondo Machado serve a dare senso all’esperienza e a emancipare una comunità: prima che le capitasse non aveva mai pensato che potesse succedere una cosa del genere tra due donne. Sembra naif? Lo è probabilmente.

Non solo Machado dice che manca un linguaggio per descrivere quello che le sta succedendo, ma ci sono momenti in cui si sente “sleale” nei confronti dell’idea stessa queer — ed è qui, per quanto mi riguarda, la riflessione più interessante e ricca di questo testo — perché pensi, con un pregiudizio — quasi «omofobico», dice — che non sia possibile. Da qui una riflessione sulla “normalizzazione” delle rappresentazioni queer.

Il tema è delicato e attuale — uso “attuale” non perché fa le aperture dei quotidiani, ma perché corrisponde a una riflessione sulle relazioni amorose e domestiche che fa parte della nostra epoca e che, anche se ci pare “attuale” nel primo senso, quello delle news, è ancora lontano dall’essere lavorato, assimilato e vissuto collettivamente — perché la violenza, psicologica e fisica, nelle relazioni d’amore è una realtà; accettare l’abuso è realtà. Non riconoscere l’abuso è, ancora, una realtà.

Da qui anche, mi pare, l’importanza della forma: il memoir, un esercizio di memoria, un lavoro sul sé, una storia personale (ma il personale non è anche politico?). Machado è molto abile — e soprattutto molto onesta — nel raccontare, nello spiegare (e nello spiegarsi) i meccanismi che fanno sì che si resti in una relazione di violenza: te ne vuoi andare, hai dei sentimenti per chi usa violenza su di te, pensi di esagerare, pensi di ingigantire. Forse è solo un momento passeggero. Sei fedele a un’idea, sei fedele a una fiducia che hai riposto. La bellezza che hai vissuto ha un prezzo? «Le persone si stabiliscono vicino ai vulcani perché il terreno che ne risulta è straordinario», scrive Machado.

E, anche, ancora, pensi di meritarlo: «Part of the problem was, as a weird fat girl, you felt lucky», scrive. Parte del problema è l’insicurezza, le proprie ferite, il bisogno di amore. E anche, per quel che riguarda la storia di Machado, la mancanza di riferimenti. Cresciuta non pensando e non sapendo di essere queer — non per paura di ammetterlo, ma per l’assenza di riferimenti culturali che ti permettano di pensarti in un’alternativa — non aveva gli strumenti per capire.

Questa riflessione è iniziata qualche anno fa, quando Machado ha scritto un testo sul gaslighting, che è continuata con un progetto di memoir: si tratta di un percorso di riconoscimento della violenza esteriore e dei meccanismi personali che permettono di sostenerla, di quelli culturali che mancano o che, ancora, vanno decostruiti.

La sua ex-compagna ha capito quello che stava facendo? «Non lo so, non importa, devo essere a mio agio con il fatto che non lo so» dice al Guardian mentre cerca di lavorare sul sé, sul danno emotivo, sulla vergogna, il fatto di aver pensato «desideravo un rapporto della polizia, o un occhio nero. Riconosco che è davvero una cazzata, ma c’è un qualcosa di ossessivo nel bisogno di avere una prova evidente; penso di averlo voluto e continuo a volerlo. E non so cosa farci», confessa. La manipolazione emotiva lascia dei segni. Perché l’interiorizzazione della voce resta, anche dopo: «Riesci a vederti come ti vedeva lei», dice.

Il testo è una gincana straziante e brillante tra la storia di Machado e una questione pubblica e politica. Un po’ come il tu e l’io della narrazione, un po’ come la struttura del testo. In questo senso “In the Dream house” è una casa infestata: tanto più di un memoir, un testo politico tout court, di una delicatezza e di una sfrontatezza che non sai inquadrare. Machado, in fondo, ci parla di umanità, di umanità che soffre, che fa male. E che reagisce.

In italiano “Nella casa dei tuoi sogni” è uscito nel 2020 per le edizioni Codice edizioni. Ne consiglio la lettura in inglese.

 

Francesca Barca

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